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Una breve riflessione su “Democrazia e Educazione” – di Claudio Salone

Pubblicato il: 25/07/2018 08:00:46 -


L'articolo di Giunio Luzzatto tocca un punto cruciale: la mancanza di una prospettiva educativa chiara nella scuola italiana. In passato lo scontro ideologico è stato acceso e fruttuoso. Oggi sembra si agisca all'ombra di un "pensiero unico", che ha smarrito il senso della storia, ripiegando su categorie astratte (civismo, cittadinanza, democrazia) e quindi inefficaci.
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Il breve, denso e intelligente intervento di Giunio Luzzatto tocca il cuore del problema della scuola italiana: la mancanza di una prospettiva educativa, di una visione dei compiti dell’istituzione. E si sa che, essendo la scuola una costruzione intrinsecamente prospettica, non destinata cioè a cogliere nell’immediato i frutti della semina, la mancanza di un orizzonte la pone in una condizione di quotidiana, potenziale insensatezza.

In passato tali prospettive sono esistite e configgevano fieramente tra loro, confortate da un’elaborazione teorica e critica potente. Luzzatto cita Aldo Visalberghi, il grande uomo di cultura, prima che pedagogista, che ha aperto la scuola italiana alle correnti di pensiero anglosassoni e con ciò la strada “al superamento delle concezioni, idealistiche da un lato e cattoliche dall’altro, all’epoca prevalenti nel dibattito pedagogico italiano”. Forse qui sarebbe stato opportuno citare anche la pedagogia marxista, non poco influente negli anni della ricostruzione del secondo Dopoguerra, anche se oggi totalmente o quasi dimenticata (chi si ricorda ancora del capolavoro di Makarenko, il “Poema Pedagogico”?).

Ma al di là di ciò, proprio attorno all’attuazione della scuola media unica (o unificata) si accese un dibattito anche aspro, che non può essere interpretato “ideologicamente” come lo scontro tra progresso e conservazione, come la raggiunta consapevolezza di una fase di accresciuta “democraticità” della scuola. Peraltro lo stesso PCI votò contro la riforma, adducendo la presenza facoltativa (e perciò discriminante) del latino. In realtà, ci sarebbero stati argomenti più forti da opporre alla costituenda scuola media unificata, la quale, assumendo come modello la vecchia scuola media prodromica al liceo, ha mortificando la pedagogia del lavoro, che era invece al centro della pedagogia marxista (poche ore settimanali, assenza di laboratori attrezzati), formalizzando lo iato tra scuola e lavoro, caro alla piccola borghesia in ascesa, con conseguenze ancora oggi visibili.

Nel 1967 con “Lettera a una professoressa”, lo stesso don Milani, denunciò “il principale difetto della scuola italiana: […] i ragazzi che ancora perde”. E indicò come porvi rimedio, proponendo di dare di più a chi parte con meno nella vita. È la cosiddetta “discriminazione positiva”, che è l’opposto dell’eguaglianza formale perché va alla sostanza delle cose, proprio come dice l’articolo 3 della Costituzione.

Aveva dunque ragione Salvemini, quando affermava che non c’è di peggio che offrire una scuola eguale a chi si trova in condizioni diverse.

Se non si riesce a educare i futuri cittadini, è probabile che la causa debba essere rintracciata nel fatto che siamo tornati a parlare in termini categoriali astratti (cittadinanza, democrazia, civismo) e ci siamo dimenticati della lezione di Marx sulla storicità assoluta delle categorie. Che senso ha parlare di cittadinanza e di democrazia se queste vengono presentate avulse dalla loro effettiva attuazione all’interno della società? La morte della Storia è esperienza di tutti i giorni e la invasività di un pensiero unico dalle caratteristiche “universali” non può celare l’ipocrisia e quindi la falsità dei modelli educativi astrattamente fondati su di esso.

Credo quindi che, per recuperare senso all’azione educativa sia necessario recuperare il senso storico, ritornare allo studio critico e non meramente trasmissivo dei contenuti delle vituperate discipline, perché è solo dalla conoscenza che può derivare la libertà vera, che è quella che ci consente di scegliere liberamente se e come far parte della collettività, in base a convincimenti personali approfonditi.

L’impatto del laureato? Dipenderà dalle condizioni sociali ed economiche in cui opera, e dalla consapevolezza acquisita che quelle condizioni possono essere mutate, non essendo ineluttabile un’azione di adattamento all’ambiente e alla vita collettiva presa così com’è.

Le competenze trasversali? Sono tutte nella capacità di “sospettare” cosa si cela al di sotto della superficie e di comportarsi di conseguenza.

Claudio Salone

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