Spread, default, tecnocrazia. Stiamo parlando anche di scuola
I termini ai quali il corrente dibattito politico-economico ci sta abituando, come spread e default si possono trasferire anche al sistema scolastico con non minore gravità e preoccupazione di quelle che accompagnano le questioni dello sviluppo economico.
Leggo i contributi e gli articoli che compaiono su Education 2.0, tanti e tanto interessanti. Mi rimandano una immagine della scuola e della sua “gente” impegnata non solo a “tirare avanti” ma a fare il meglio, a scoprire il nuovo, ad offrire di più, a “produrre” con maggiore qualità. Poi guardo i dati del sistema di istruzione, gli indicatori macro del suo funzionamento, i risultati complessivi e mi rendo conto che i termini ai quali il corrente dibattito politico-economico ci sta abituando, come spread e default si possono trasferire anche al sistema scolastico con non minore gravità e preoccupazione di quelle che accompagnano le questioni dello sviluppo economico. Lo scarto tra le due immagini è del resto analogo: anche l’economia del Paese è fatta di tante imprese, tanti lavoratori che, giorno dopo giorno, cercano non solo di cavarsela, ma di trovare nuove vie, di cercare il meglio, di misurarsi con la sfida della qualità. Panorami isomorfi. Simmetria delle contraddizioni. Come uscirne? Provo a dipanare un filo di riflessione (del resto più volte altrove proposta) cercando qualche risposta.
1. Uso spesso, con valore metaforico, la considerazione che il punto di svolta “evidente e misurabile” (altra cosa ne è la consapevolezza) nello sviluppo del nostro sistema di istruzione si può collocare a cavallo del nuovo secolo e che esso è segnalabile come il momento nel quale “il livello di scolarizzazione dei padri ha eguagliato quello dei figli”. Prima di quel punto di flesso il secondo era stato stabilmente superiore. I figli studiavano più di quanto avessero studiato padri. (Sto parlando ovviamente di dati complessivi rispetto alla popolazione complessiva. Lascio semmai e volentieri ad Allega quantificare opportunamente). Quel momento segnala un traguardo storico: la realizzazione dell’imperativo che aveva guidato la creazione di un sistema di istruzione di massa: “tutti a scuola”.
Certo lo sviluppo si è accompagnato con il permanere di livelli di selezione interna molto elevati, di “dispersione” (come si usa dire), di “canalizzazioni” improprie, di permanenza di paradigmi culturali, di scale di valori socialmente riconosciuti, implicite o latenti, di immobilismo istituzionale; elementi che segnano quantitativamente e qualitativamente quello sviluppo. Ma il traguardo storico del “tutti a scuola” poteva dirsi raggiunto. Al raggiungimento di quel risultato aveva contribuito una politica di sviluppo che altrove ho indicato come expensive. Attraverso cioè input quantitativi (di risorse economiche e umane) “a parametri costanti”. Una politica di tipo “incrementale” che contrassegnava la spesa pubblica e la sua destinazione prevalente: il numero degli addetti, l’occupazione nella scuola. Una politica della spesa ad incrementi “lineari” (esattamente come oggi è lineare, e lo si denuncia a gran voce, la politica di limitazione della spesa).
2. Le contraddizioni di quello sviluppo si sono sedimentate in parallelo al suo realizzarsi e incrostate per stratificazioni successive sullo stesso sistema di istruzione, alcune segnalate già nel punto precedente. Mi preme qui sottolineare altre due fonti di contraddizioni che hanno accompagnato quella “conquista storica”. La prima è costituita dalla invarianza sostanziale del sistema di istruzione, in quanto a fondamenti, significati, valori, funzioni sociali. È stata fatta “manutenzione” (spesso anche di qualità, si pensi ai programmi della scuola media o della elementare, alla sperimentazione dell’istruzione tecnica) ma non “rifondazione” del sistema. Ho altrove sintetizzato con uno slogan: il “tutti a scuola” (grande traguardo di portata storica per il nostro Paese) non si è mai tradotto nella costruzione di “una scuola per tutti”. Senza approfondire l’analisi mi basta affermare che anche il confronto corrente sulla politica scolastica è largamente “incrostato” dalle sedimentazioni di quella contraddizione (basti volgere lo sguardo sui “nuovi” ordinamenti della secondaria superiore). La seconda è costituita dal lascito più evidente della politica expensive sul fronte del personale. L’accumulo del precariato (con tutto ciò che l’accompagna sia sotto il profilo economico, sia sotto quello della formazione dei docenti) ha costituito una “fascina di legna verde” permanentemente sulle spalle della politica scolastica e permanentemente condizionante ogni ipotesi riformatrice o innovatrice. A partire dallo stesso impegno delle organizzazioni collettive, sindacali e non, della scuola stessa. Il Sindacato stesso ha pagato, a mio parere, lo scotto più grande del non riuscire a coniugare rivendicazione e contrattazione con ispirazione riformatrice (la sfida “politica” del sindacalismo confederale del nostro Paese), a causa del carattere pregiudiziale che quel problema esercitava su ogni altra rivendicazione. (Per esempio sulla prospettiva di affrontare i problemi dell’organizzazione, dei tempi e degli spazi della scuola e dell’insegnamento).
3. Il modello expensive ha deformato anche altri sguardi necessari nella analisi dello sviluppo del sistema di istruzione: tutti quelli che dovevano necessariamente rivolgersi ai “risultati” dello sviluppo stesso. Già dalla fine degli anni ’70, le ricerche di comparazione internazionale come IEA (allora intestate all’allora CEDE, oggi INVALSI) mostravano due elementi negativi: il primo era che i livelli “medi” dei risultati di apprendimento nella scuola italiana occupavano in modo preoccupante la bassa classifica internazionale. Il secondo era (mi si scuserà l’approssimazione) che se si prendeva in considerazione il terzile o il quartile dei risultati più elevati la posizione della scuola italiana nel confronto internazionale risaliva sino all’eccellenza. Insomma i nostri studenti migliori erano “migliori quanto gli altri”. Considerazione che avrebbe dovuto preoccupare più ancora della prima (la scuola “serviva” sempre e solo “ai soliti”), ma che, curiosamente (ma non molto data l’invarianza delle scale di valori culturali), risultava allora “consolatoria” (e ancora oggi una parte del dibattito sul pericolo di default che corre il nostro sistema si consola con la considerazione delle “eccellenze”). In realtà quei dati rivelavano uno dei fallimenti “nascosti” nello sviluppo di massa del nostro sistema scolastico: la smentita alla “scommessa democratica” che la scolarizzazione declinasse il valore dell’equità sociale, del perseguimento dell’uguaglianza, della colmatura delle differenze di classe nell’esplorazione delle possibilità di affermazione ed avanzamento sociale. Una smentita che doveva bruciare sulla pelle (e quanto brucia!) soprattutto di coloro che su tale scommessa avevano ed hanno fondato il loro impegno nella scuola.
4. Oggi, purtroppo non è più neppure così. La bassa classifica dei risultati medi nella comparazione internazionale è confermata, mentre la qualità e quantità delle eccellenze si sono drasticamente ridotte. (Sia detto en passant: i tanti e spesso competenti critici delle rilevazioni INVALSI dovrebbero fare uno sforzo retrospettivo e valutare che ciò che esse oggi ci consentono di misurare non è un “nuovo e discutibile” fenomeno, ridimensionabile con un buon approccio critico sulla strumentazione delle rilevazioni. Possono anche essere vere certe critiche, ma il fatto è che le rilevazioni confermano cose note da tempo e sulle quali abbiamo evitato di porre lo sguardo. Possono variare alcuni parametri quantitativi, ma non la sostanza dei processi e la loro lettura sistemica). L’elemento più preoccupante (almeno a mio parere) che emerge da tali rilevazioni nazionali è lo scarso indice di equità del sistema. Il confronto non tanto sui livelli medi dei risultati, quanto delle varianze (la variabilità territoriale, quella tra scuola e scuola, quella tra classe e classe) e della loro evoluzione nel tempo, dimostra una frammentazione di fondo del sistema ed una distribuzione fortemente diseguale dei suoi risultati. Un bassissimo livello di “equità” sociale. Tra quei dati vi è nascosto un pericolo specifico di default relativo del sistema, ancora maggiore di quello assoluto che proviene dal confronto internazionale deludente. Mi scuso ancora per la semplificazione del ragionamento: quando si ha a che fare con una grande variabilità dei risultati, a parte le considerazioni relative alla equità del sistema, occorre chiedersi se e come “i risultati migliori della situazione peggiore (territoriale, di scuola, ecc..) siano agganciabili ai “risultati peggiori della situazione (territoriale, di scuola ecc…) migliore”. Se la risposta è positiva allora la prospettiva di innescare processi di miglioramento ha una “base realistica”, poiché si possono elaborare modelli, esportare buone pratiche, copiare tecniche, riprodurre condizioni. Ma se la risposta è negativa la tentazione di lasciare andare al degrado le situazioni per le quali tale prospettiva si rivela realisticamente infondata è grande. Si dedichino risorse ai migliori e si abbandoni a sé chi non può realisticamente migliorare (o meglio: gli si dia quel tanto che basta a sopravvivere poiché esiste il “diritto all’istruzione”, ma nulla di più. È una versione del “federalismo scolastico”). Così va in “default relativo” un sistema. Ma posso sempre salvare le eccellenze e dedicarvi le priorità politiche (e se fosse questo il vero significato implicito delle categorizzazioni sulla “meritocrazia”?). È, quella descritta, una cesura sufficientemente chiara tra diverse “politiche scolastiche”? O preferiamo discutere di “tempo pieno”?
5. A conforto di chi teme che misurarsi e misurare i dati relativi ai risultati implichi la redazione di graduatorie, l’uso di rating cui connettere valutazioni premiali o iniziative di ristrutturazione (vedi oltre) si propone, a mo’ di consolazione, un assennata considerazione del cosiddetto “valore aggiunto”. Se “depuriamo” i dati grezzi dall’effetto che le variabili di tipo socio-economico-culturale, ambientale, famigliare comportano, possiamo più sensatamente ricostruire ciò che la scuola effettivamente dà e produce attraverso la sua opera. È senz’altro vero. Per esempio si scopre che il valore aggiunto più elevato lo danno non i luoghi dell’eccellenza (vedi i licei) ma l’istruzione tecnica. In modi di assoluta singolarità (ma solo per chi trascuri il peso e l’effetto della permanenza di quel modello istituzionale di valori e scale riconosciute e convalidate nella cultura politica cui si accennava in precedenza) la domanda sociale di scuola si dirige però “spontaneamente” verso i luoghi a più basso valore aggiunto. Così si falsifica clamorosamente dunque il significato “consolatorio” che spesso accompagna le argomentazioni sul “valore aggiunto”. Ma vi è una considerazione più radicale. Quando il “prodotto” del sistema di istruzione si confronti con lo sviluppo complessivo del Paese, sia sotto il profilo economico che culturale e sociale, sotto il profilo cioè del “bene comune”, che cosa ha rilevanza, il dato grezzo del “prodotto” della scuola, o il valore aggiunto? Quando un giovane vorrà inserirsi nel lavoro e dovrà mettere alla prova, sia per sé che per il mondo, il risultato della sua istruzione e formazione, cosa rileverà? Lo stato dell’arte delle sue competenze o l’incremento relativo che esse hanno avuto nel suo percorso di formazione? Possiamo certo imprecare contro l’ingiustizia selettiva del mercato e quella del “sistema capitalista”, ma la risposta alla domanda è certa. Per il sistema di istruzione e per evitarne il pericolo del suo default è dunque corretto tenere d’occhio il “valore aggiunto”. Ma il problema di individuare “strategie di sistema” non può prescindere dalla “crudeltà” dei dati relativi ai risultati grezzi.
Nei punti precedenti ho solo cercato di riassumere grappoli di contraddizioni e i loro effetti che minacciano il default di sistema riportandoli alla loro origine storica. Da oltre trent’anni la politica scolastica (di chi ha governato ma anche di chi si è opposto; di chi si oppone oggi e forse governerà domani) non è stata in grado di cogliere la svolta necessaria dopo avere conseguito il risultato storico dell’istruzione di massa. Il permanere di una impostazione expensive (che non poteva che avere tali caratteristiche di fronte al compito di costruire una scuola di massa), di una politica delle risorse di tipo “incrementale” lineare non ha lasciato le cose come stanno: ha creato le condizioni per il default. Nella illusione che il raggiungimento di un traguardo confortasse la permanenza di una politica, semmai necessitante di qualche manutenzione, ci si è illusi che lo sviluppo sarebbe proseguito. In realtà i processi storici, lasciati alla loro dinamica “spontanea”, non possono che inseguire la loro deriva entropica. È necessario, per corroborare l’affermazione, riportare i dati che De Mauro ci ricorda sull’analfabetismo reale occultato sotto i livelli di scolarizzazione formale? È necessario commentare i dati relativi ai NEET e scoprire che l’istruzione non è neppure in grado di mascherare una costante nella storia dell’occupazione del nostro paese come la sovrapopolazione relativa? (Cioè uno sviluppo economico strutturalmente incapace di usare appieno la risorsa lavoro) Dobbiamo confrontare una stagione nella quale il sindacato, con le 150 ore affrontava direttamente, sia pure parzialmente, il problema dell’istruzione e del lavoro, con quella attuale in cui in un accordo “esemplare” come quello di Pomigliano il lavoro è una sorta di “robot collettivo” i cui movimenti sono misurati al centesimo di secondo e nel quale i “corsi di formazione aziendale” (formazione a cosa?) sono resi obbligatori, pena il licenziamento? (vedi appendici del testo di accordo, firmato e referendato)?
Certo non sono solo illusioni quelle che stanno alla base di un fallimento storico della politica scolastica. La scuola e la spesa pubblica ad essa dedicata nella fase extensive hanno partecipato al “compromesso sociale e fiscale” che ha sorretto le classi dirigenti di questo paese. Sono state parte di un “compromesso politico” che ha costruito la cittadinanza con lo strumento della sola espansione della spesa pubblica ed ha risposto ai “diritti sociali” costruendo uno Stato Sociale fondato su una fiscalità alimentata più dal costo del lavoro che non dal prelievo progressivo sulle ricchezze. Il default accomuna sistema di istruzione e sistema socio economico e politico. Dunque è una intera fase di politica scolastica che si pone in discussione. Quella che deve lasciare il posto ad una impostazione intensive, capace di misurarsi, anche dolorosamente con i risultati reali. Di correlare risorse e traguardi, spesa ed investimento; investimento e suo “rendimento sociale”. L’enfasi con la quale oggi si propone il tema della valutazione va interpretata perciò ripulendola da “intenzioni e significati” impropri sia dal punto di vista politico che tecnico. Ma va interpretata come sfida e scommessa storica rispetto alla quale le autodifese, i “condizionali”, sono solo annunci di sconfitta e, al massimo, tentativi di rinviarne la scadenza. Non ci si può nascondere che tale rilancio politico implica una crescita della “composizione tecnica” della stessa strumentazione politica. (O se si vuole della componente di competenze specifiche necessarie all’intervento politico). Ma, e qui è altro punto di analogia tra sistema di istruzione e sistema socio economico complessivo, ci sono sempre due strade per realizzare ciò. La prima è quella sbrigativa della “tecnocrazia”. La seconda è quella dell’impresa “intellettuale e morale” che coinvolge costruzione di senso, valori sociali, cultura sociale, senso comune.
Quando verrà il momento in cui qualcuno vorrà misurare “quale differenziale di investimento è necessario per incrementare di un punto i risultati delle rilevazioni INVALSI” (se lasciamo le cose come stanno basta aspettare poco: simili propositi sono dietro l’angolo. È profezia facile), dovremo saper rispondere sia politicamente che tecnicamente che si tratta di una sciocchezza. Non basterà stracciarsi le vesti in nome della “superiorità” e irriducibilità economica della cultura. Quando qualcuno vorrà proporre un dimensionamento delle unità scolastiche per razionalizzare i costi non basterà sostenere che “piccolo è bello” o che bisogna sviluppare la “leadership educativa” difendendo i posti da dirigente scolastico. Bisognerebbe essere in grado di offrire ricerca sul campo circa l’ottimizzazione delle dimensioni “dell’impresa scuola”, e semmai avere sensate proposte di come si reclutano i Dirigenti scolastici diversamente dai procedimenti “stupidi” messi in campo e criticati (con ferocia degna di miglio causa) solo per il loro dubbio garantismo. Quando qualcuno vorrà fare rating tra le scuole e i territori, per “razionalizzare” le politiche di spesa e di investimento e dare improbabili fondamenta “tecniche” alle politiche di incentivo legate alla performance (si siamo.. ci siamo. Consiglio di tenere sotto osservazione la “ristrutturazione” dell’INVALSI) occorrerà padroneggiare gli strumenti della ricerca valutativa per dimostrane l’infondatezza scientifica prima ancora che politica; occorrerà padroneggiare gli strumenti per elaborare progetti di miglioramento realistici, che aggancino “i peggiori ai migliori”. Non basterà che qualche “intellettuale in rivolta” (di qualità personale indiscutibile) protesti che non si può valutare Leopardi dal numero di versi che ha pubblicato…
Rivelo volentieri il mio passatismo confessando che gli scritti di Gramsci costituiscono da tempo il mio livre de chevet, ma il richiamo mi pare più che mai opportuno. La risposta a tali alternative è in una “riforma intellettuale e morale” che sappia elevare la stessa “cultura della scuola” disponibile alla “politica scolastica”. La scuola è il più consistente aggregato di lavoro intellettuale del Paese: il problema torna perciò tra le mani del “popolo della scuola” e nella sua capacità di elaborare senso, significati, cultura diffusa, anche mettendo in discussione senso e significati che finora hanno confortato stili e modelli professionali. L’alternativa della tecnocrazia ha la durata di un mattino.
Ma la politica scolastica povera di competenza tecnica può solo accelerare il default del sistema.
Franco De Anna