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Scuola superiore: quattro anni vi sembrano pochi?

Pubblicato il: 26/11/2013 15:42:27 -


La riduzione di un anno della durata della scuola secondaria superiore è un obiettivo sensato. Ci hanno lavorato, con pochi risultati, quasi tutti i governi degli ultimi anni, e ora è oggetto di una sperimentazione che coinvolge istituti sia statali sia paritari. La sfida è però complessa perché l’accorciamento comporta profonde modifiche, sia organizzative sia didattiche, che sono ostacolate da un insieme di condizioni avverse. Il processo che sta per avviarsi è di grande importanza: il presente contributo intende aprire su Education 2.0 un dibattito attento nel mondo della scuola e nell’opinione pubblica.
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L’eventuale riduzione di un anno della durata della secondaria superiore non dovrebbe significare la compressione in quattro anni di tutti i contenuti disciplinari che oggi si sviluppano in cinque (non convince, dunque, l’idea di una “compensazione” dell’anno in meno con una dilatazione del monte-ore didattico settimanale). Per escludere il doppio rischio di un impoverimento formativo o, viceversa, di un inasprimento degli insuccessi scolastici, la sperimentazione autorizzata dal ministero dovrebbe invece contemplare l’attivazione, almeno nel secondo biennio, di aree disciplinari opzionali al di fuori del “core curriculum” – e di approfondimento e di sviluppo di quelle che ne fanno parte – come avviene in altri paesi europei.

L’accorciamento del percorso principale potrebbe perciò accompagnarsi a tempi diversificati di percorrenza di un curricolo finalmente più personalizzato: cioè orientato alle scelte future e responsabilizzante, perciò più motivante.

Anche su questo possibile esito dell’innovazione, che implica tra l’altro una diversa articolazione delle certificazioni finali, ci sono esperienze ormai consolidate in Europa e fuori da studiare attentamente. Un’ipotesi di lavoro, questa, che non elude, ma prende di petto, il curioso argomento di tanti oppositori secondo cui l’accorciamento sarebbe impensabile in una scuola come la nostra in cui una parte non marginale di studenti sembra avere bisogno non di cinque, ma di sei o sette anni per conseguire il diploma (che fare, allora, allungare ancora il brodo per renderlo digeribile anche ai meno impegnati?).

L’obiettivo è certo allineare l’età della transizione a nuovi percorsi formativi o all’ingresso nel lavoro, come avviene sia in paesi come Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Svizzera – come si è sempre fatto (senza scandalo) –, sia nei licei italiani all’estero; ma anche per sviluppare interessi e motivazioni all’età giusta, facendo leva sulla voglia dei giovani di costruirsi un proprio percorso di vita e professionale. E sulla crescente insofferenza per una lunga, costosa e costrittiva permanenza in percorsi di studio, da un lato scelti spesso inconsapevolmente e comunque socialmente gerarchizzati, dall’altro identici per tutti.
Quattro anni, dunque, ma se serve anche un semestre in più per prepararsi agli esami di accesso alle diverse facoltà universitarie, alla formazione terziaria non accademica e alle qualifiche necessarie a un ingresso a testa alta nel mondo del lavoro.

Tra gli aspetti che convincono di meno nella discussione che si è avviata – purtroppo disordinatamente, ma in Italia ormai funziona così – c’è l’enfasi davvero eccessiva sull’alternanza studio lavoro come unica strada per avvicinarsi con consapevolezza al mondo adulto e delle professioni. Sono esperienze utili, se ben fatte, ma non possono sostituire la prova del fuoco delle attitudini, degli interessi, delle capacità individuali che si può avere percorrendo aree opzionali e di approfondimento (a cui bisognerebbe connettere la stessa alternanza) funzionali alle scelte future.
E non sono sempre ed egualmente adatte a tutti gli indirizzi di studio (ci sarebbero anche altre attività, del resto, che le scuole potrebbero promuovere per accelerare lo sviluppo delle competenze trasversali e le capacità “adulte” di autocontrollo e di cooperazione, utilizzando meglio, dentro e fuori la scuola, la trascuratissima educazione alla cittadinanza).

Tutto ciò, e anche tutto l’altro che si intreccia all’obiettivo dell’accorciamento, comporta di dover lavorare al superamento dei tanti limiti e lacune che restano come macigni nella secondaria italiana:
– la non definizione, nel nutritissimo elenco di specificità disciplinari tutte egualmente “essenziali” (elenco sempre esposto a ulteriori incrementi, come dimostrano il lavorio delle lobbies accademico-professionali e le pressioni parlamentari), di un “core curriculum” e di relativi standard/livelli di riferimento;
– l’oscillazione, culturale e didattica, tra “conoscenze” e “competenze” (pur nello scandalo di tanti diplomati incapaci di un’elaborazione scritta dignitosa, di un uso fluido e corretto di un’altra lingua, di una piena comprensione di testi mediamente complessi, e addirittura privi di un metodo di studio di qualche efficacia);
– la fatica delle scuole a misurarsi concretamente, e con esiti stabili, con la duplice indicazione contenuta nelle “Linee guida per l’implementazione del nuovo ordinamento degli istituti tecnici e professionali” relativa a una didattica per l’acquisizione di competenze e alla flessibilità organizzativa, e con le Indicazioni per i licei che, sia pure in misura diversa, convergono su questa stessa prospettiva.

Che fare?

La continua invocazione, come alla principale delle soluzioni, a una formazione intensiva – come non si fa più nella scuola italiana – dei dirigenti scolastici e degli insegnanti è certamente sensata (sempre che per formazione si intendano non corsi di tipo accademico ma il supporto alla progettazione delle attività didattiche e delle flessibilità organizzative), ma è noto che ci sono altri vincoli da superare, di cui il più importante è la rigidità degli organici, somministrati dal Ministero del tutto indipendentemente da ogni indicazione didattica e organizzativa di tipo innovativo, cui seguono quelle degli orari delle prestazioni didattiche e di una funzione e di un profilo professionale docente sostanzialmente non difformi da quelli disegnati quarant’anni fa.
Rigidità, cui si aggiunge la scarsità di risorse economiche degli istituti, che tagliano le gambe, e prima ancora la voglia di innovare, all’autonomia scolastica.

È in un contesto di questo tipo che la sperimentazione – dell’accorciamento, e di tutto quello che vi è connesso – si rivela essenziale.
Se, come è accertato dalle indagini internazionali, non c’è correlazione tra i risultati di apprendimento e la durata degli studi; e se non è sensato, tanto meno sotto i colpi della crisi, sottoporre i ragazzi e le famiglie italiane a una durata degli studi che, a fronte delle ingenti spese pubbliche e private per sostenerla, non restituisce che una anomala dilazione del momento delle scelte accompagnata dal rischio di farle al buio, bisogna ricorrere a una verifica sperimentale di altre possibili soluzioni.
Processo che deve essere bene impostato, supportato, monitorato nell’andamento e negli esiti, ed è qui che si verificherà la capacità di guida del Ministero e dei suoi (non molti) tecnici.
Da questo punto di vista, è bene che gli istituti coinvolti siano pochi, ed è ovviamente ottimo che la sperimentazione non sia circoscritta, come sembrava inizialmente, a sole scuole paritarie ma ne coinvolga anche alcune statali che si sono candidate per la qualità delle loro esperienze didattiche e organizzative.
Un’innovazione di questa importanza, infatti, deve potersi valutare in contesti che ne garantiscano la trasferibilità, e sullo sfondo di una chiarezza politica che escluda il rischio, rivelatosi immediatamente in forme spiacevolmente vistose, di una concorrenza, giocata sulla riduzione dei tempi del percorso, tra scuole paritarie, connotate da un’utenza socialmente privilegiata (e da strutture e strumentazioni particolarmente avanzate), e scuola pubblica.

Quanto alle contrarietà che non trovano argomenti se non il timore di altri tagli occupazionali, o che addirittura si rifugiano nella presunta illegittimità di una sperimentazione priva del placet di un organismo nazionale decotto da almeno un lustro, non c’è da meravigliarsi.
Fanno parte di un costume nazionale da tempo abituato a evitare come la peste ogni discussione di merito ricorrendo all’allarmismo o ai ricorsi.
Sarebbe più utile, in tema di organici, verificare, proprio attraverso la sperimentazione, quali possono essere gli esiti di una distinzione tra “core curriculum” e un menù ampio e diversificato di aree opzionali, e tra percorsi quadriennali e percorsi opzionali e preparatori; di quali figure e funzioni specialistiche stabili e qualificate – le famose “figure di sistema” previste normativamente e poi liquidate per via regolamentare o contrattuale – c’è bisogno per una scuola più flessibile sul piano didattico e organizzativo. E come assicurare, alla sperimentazione stessa e poi a un eventuale trasferimento in ambiti più ampi delle scelte che dovessero risultare positive, un organico commisurato non solo al numero delle classi moltiplicato per le annualità, ma “funzionale” alle attività da svolgere.
Sempre, ovviamente, che l’autonomia scolastica abbia voce in capitolo.

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Immagine in testata di Vlado / freedigitalphotos.net (licenza free to share)

Fiorella Farinelli

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