Una scuola impoverita
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La fotografia che fa il rapporto dell’OCSE sull’educazione in Italia è quella di uno Stato che risparmia sull’istruzione perché non è il momento di maggiori investimenti nel settore, ma in compenso il nostro è uno Stato che ha una diffusa occupazione intellettuale nel mondo scolastico. Ma è proprio così?
L’impoverimento è una conseguenza del deficit di equilibrio tra qualità e quantità dell’offerta formativa, impiego di risorse umane con rapporto di lavoro stabile e relativa sostenibilità finanziaria. I recenti dati OCSE, sempre oggetto di interpretazioni diverse, restituiscono comunque l’immagine di una scuola italiana che soffre di troppe anomalìe di sistema. La spesa per Scuola e Università nel nostro Paese è del 4,8% del Pil contro la media OCSE del 6,1%. Gli stessi stipendi degli insegnanti sia all’inizio carriera che dopo 30 anni di lavoro sono ben sotto la media OCSE, ma, si obietta da anni, questo è il risultato del basso rapporto docente-alunni che ha prodotto, nel tempo, un più vasto impiego dei docenti italiani rispetto ai colleghi stranieri. Come dire, sono di più e quindi vanno pagati di meno.
Insomma nulla di nuovo: la fotografia è quella di uno Stato che risparmia sull’istruzione perché non è il momento di maggiori investimenti nel settore, ma in compenso il nostro è uno Stato che ha una diffusa occupazione intellettuale nel mondo scolastico. Ma è proprio così? Oppure la bella favola (se così si può chiamare) è finita da un pezzo e lo scenario è profondamente cambiato?
L’età d’oro dell’aumento della scolarizzazione di massa, prima nella scuola media unica e poi nelle superiori, soprattutto negli istituti tecnici e professionali, vide il coinvolgimento di una popolazione di dieci milioni di alunni con un notevole e giustificato aumento del personale scolastico. Ma il calo demografico intervenuto negli anni successivi in effetti portò a realizzare un rapporto docenti-alunni tra i più onerosi nei paesi dell’OCSE, e solo dalla fine degli anni novanta furono adottate misure coerenti per rendere sostenibile la spesa pubblica per l’istruzione. Fu razionalizzata la rete scolastica che passò da 14.000 scuole a 10.000 circa, accorpate classi di concorso ed effettuati periodici tagli agli organici per realizzare un equilibrio tra dotazione organica di ogni singolo istituto e offerta formativa. Il libro bianco del 2007, pur rilevando la permanenza di elementi di criticità, dava conto diffusamente dello stato dell’arte raggiunto.
Come è stato possibile allora che la scuola si sia, in quest’ultimo periodo, progressivamente impoverita?
Certo sono notevolmente aumentate, per le note contingenze, le esigenze del rigore, la sostenibilità dell’intervento finanziario statale sembra non poter in alcun modo superare quell’insufficiente quota di Pil da destinare all’istruzione. Un intervento che si risolve, appunto, per ben oltre il 90% nel pagamento delle spese per il personale.
Ma calandosi nella realtà scolastica in maniera più approfondita si scoprono altre variabili importanti, proviamo a elencarne almeno due:
1. l’aumento della popolazione scolastica, dovuta non soltanto all’aumento esponenziale degli alunni extracomunitari. L’esigenza di contrazione degli organici sulla base solo del calo della popolazione scolastica è andata, infatti, progressivamente svanendo: i sette milioni e mezzo di studenti che hanno segnato il maggiore punto di caduta sono ormai un lontano ricordo – anche se continuano a permanere aree di minore incremento demografico al Sud e nelle Isole – e gli studenti italiani sono arrivati alla quota di otto milioni;
2. l’ormai fisiologica permanenza del precariato nella scuola (un docente su quattro) nonostante le annuali immissioni in ruolo.
Queste due variabili rendono oggi meno facilmente accettabili le stesse misure che furono adottate negli anni di decremento scolastico, quali:
• la contrazione del numero delle scuole nel contesto di una rete scolastica già razionalizzata. L’estensione dell’obbligo scolastico dell’ultimo decennio deve infatti poter contare anche su una dislocazione territoriale dimensionata ed efficiente;
• la contrazione delle dotazioni organiche delle scuole che anche a seguito delle innovazioni educative introdotte nella secondaria superiore rendono più ardua e problematica la gestione del precariato scolastico. È ovvio, infatti, che la stabilizzazione dei circa 180.000 attuali precari (l’età media degli uomini è 40 anni e oltre 37 quella delle donne) penalizzerebbe soprattutto i giovani laureati.
Il quadro di una scuola impoverita si delinea dunque sulla base di un non ancora raggiunto equilibrio tra sostenibilità finanziaria dell’intervento, qualità e quantità dell’offerta formativa e impiego di risorse umane con rapporto di lavoro stabile.
E allora per uscire dall’impasse sono necessarie da parte delle politiche educative tre prese d’atto:
• L’AUMENTATA RICHIESTA D’ISTRUZIONE IN ITALIA, sia in termini quantitativi che qualitativi;
• LA CENTRALITÀ DELLE POLITICHE DEL PERSONALE, più docenti a tempo indeterminato e più reclutamento selettivo (gli ultimi concorsi sono del 2000 e molte graduatorie sono ormai esaurite, principalmente negli insegnamenti tecnici e scientifici). Bisogna ricordare, infatti, che le graduatorie a esaurimento (già permanenti) e le graduatorie degli idonei ai concorsi a cattedra, entrambi provinciali, sono i due canali di reclutamento dei docenti oggi in Italia. E allora, data la consistenza del problema, una strategia per la stabilizzazione del precariato che non penalizzi completamente i giovani laureati deve trovare un giusto compromesso tra l’azzeramento delle graduatorie e la partecipazione ai concorsi dei neo-laureati. Innovativi e diversificati sistemi di accesso al mondo della scuola (e in generale ai servizi scolastici) potrebbero favorire il compromesso;
• L’INVESTIMENTO PRIVATO NELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: pubblico, privato e no-profit potrebbero convivere nel settore educativo in maniera nuova e a un più alto livello di qualità e di numero di servizi, proprio in questa fase in cui l’offerta scolastica si è notevolmente ridotta anche sul piano quantitativo, soprattutto al Sud.
“Vi sono strumenti operativi – si chiedeva qualche giorno fa Franco De Anna su Education 2.0 – per dare alla ricchezza privata uno sbocco giusto ma anche conveniente per generare investimento e ricchezza sociale?” Nell’articolo “Debito pubblico, risparmio privato: l’istruzione come ricchezza pubblica” si formulano alcune ipotesi sulla base di esempi internazionali, a riprova che il territorio è vasto e vale la pena esplorarlo.
Certo, ad avviso di chi scrive, l’agenda delle politiche educative andrebbe arricchita di un quarto punto: L’INSOSTENIBILE LUNGHEZZA DEI CICLI SCOLASTICI ITALIANI in un contesto educativo moderno, il cui dinamismo consente notevoli anticipazioni e accelerazioni di conoscenze.
Nel febbraio 2000 la legge n. 30 dell’allora ministro Berlinguer, con il riordino complessivo dei cicli scolastici, ipotizzò la riduzione di un anno nella durata del ciclo primario (sette anni, al posto degli attuali otto, cinque di scuola elementare + tre di scuola media) nonostante il fuoco incrociato delle organizzazioni sindacali di categoria.
Ma, com’è noto, l’ipotesi non resse al fuoco nemico nella successiva legislatura, che, con la rapidità d’azione tipica dei preconcetti, riuscì ad abrogare la legge. Le buone idee, però, qualche volta seguono percorsi non lineari e s’inabissano come i fiumi sotterranei per poi ritornare alla luce dopo un lungo tratto.
C’è da augurarsi che succeda.
Giuseppe Fiori