Regioni e Scuole: un rapporto irrisolto
Undici anni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, permane una sostanziale separatezza tra il sistema istruzione e quello della formazione.
Le Regioni, dopo undici anni dalla riforma del Titolo V, non sembrano godere, per dirla eufemisticamente, di buona salute dal punto di vista della trasparenza e dell’efficacia degli interventi nei settori di competenza. Ancor più, nell’attuale processo in corso in cui l’Italia pone in atto ogni sforzo per consolidarsi come una regione d’Europa, il consuntivo dell’attività politico-amministrativa scaturita dal quadro ordinamentale disegnato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – oggi in via di ridimensionamento da parte del Governo – appare tuttora a tinte incerte.
Indietro tutta dunque? Non è ovviamente ipotizzabile, ma limitiamoci a parlare di scuola, dove le nuove norme costituzionali hanno rideterminato le aree di legislazione esclusiva dello Stato e delle Regioni e di legislazione concorrente, elevando, nel contempo, l’autonomia delle istituzioni scolastiche a rango costituzionale.
Nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni ricade l’istruzione e la formazione professionale (art. 117) con un notevole ampliamento rispetto al precedente dettato costituzionale. Potestà che non è stata esercitata, perché lo Stato ha confermato la sua legittimazione a intervenire con la legge Fioroni n. 40/2007; la legge, in nome della diffusa quinquennalità dei percorsi educativi negli istituti professionali e del loro esito conclusivo con l’Esame di Stato, sul piano normativo ha saldato l’istruzione professionale con l’istruzione tecnica.
La soluzione data al problema ha, comunque, aggirato di fatto il dettato costituzionale, allontanando ancora una volta il raccordo imprescindibile tra istruzione e formazione professionale, nonostante il nuovo ordinamento per l’istruzione professionale varato già da tre anni. Si tratta di un’occasione in parte mancata rispetto ai due principali fattori:
– un più stretto coordinamento tra le politiche educative e le politiche formative nel settore, attraverso l’integrazione dei due sistemi indicata dall’art. 117 della Costituzione;
– la necessaria sinergia finanziaria e degli apparati, che avrebbe realizzato un’auspicata economia di scala a tutto beneficio del settore.
Vale a questo proposito il monito lanciato da Giuliano Amato sul “Sole24ore” dello scorso 14 Ottobre: “[…] È illusorio cercare il rimedio nelle sole riforme istituzionali, giacchè, per dirne una, in un sistema di governo che rimanga multilivello non si troverà mai un riparto di competenze che eviti la necessità in più casi di un loro esercizio comune e quindi di una intesa in vista di un fine comune”.
A nessuno sfugge come l’ordine di studi in questione sia il più delicato della secondaria superiore, per l’elevato tasso di dispersione e per l’oggettiva difficoltà a esprimere opportunità formative che giochino un ruolo per la mobilità sociale dei suoi studenti. Gli alunni dell’istruzione professionale si sono stabilmente assestati in questi ultimi anni su una quota di poco superiore al mezzo milione: nell’anno scolastico in corso 2012/13 sono 545.000. E se si confronta il numero delle attuali 84.043 quinte classi con il numero delle attuali 136.281 prime, si coglie immediatamente la dimensione della dispersione (anche se un confronto più corretto va operato con le prime di inizio corso).
Lo sforzo fatto con il nuovo ordinamento testimonia che non si tratta soltanto della solita storia di apparati pubblici, che trovano la loro ragione sociale più nella sopravvivenza degli stessi che nell’erogazione del servizio cui sono preposti.
Ma scuole, assessorati, centri di formazione, uffici centrali e periferici erano stati chiamati a trovare momenti di integrazione e sinergie che è stato possibile realizzare solo in parte e con diverse velocità.
Il risultato di questo spicchio di riforma del Titolo V è stato quello di cambiare tutto per non cambiare molto, se non in termini di revisione degli indirizzi di studio, che nel settore tecnico e professionale viene comunque periodicamente effettuato.
La potestà legislativa concorrente in tema di istruzione (introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, che riserva alla legislazione dello Stato la determinazione dei princìpi fondamentali) poteva rappresentare l’opportunità anche per le Regioni di azionare la “leva istruzione” nello specifico culturale e produttivo del proprio territorio. Già la leva istruzione, nel settore professionale, è stata invece azionata dallo Stato, con pienezza di poteri: è un dato di fatto che ha coinciso con politiche di contenimento della spesa pubblica per l’istruzione.
Finanziarie prima e leggi di stabilità poi, se hanno realizzato una razionalizzazione della pianta organica delle scuole, non hanno risolto il problema del precariato scolastico, con una netta sottovalutazione del fenomeno, dato che, in ogni settore, la qualità del lavoro dipende anche dalla stabilizzazione del rapporto.
Un’ultima notazione sull’altra sottovalutazione accennata: quella della responsabilità della leva scolastica per la scarsa mobilità sociale esistente in Italia.
In un articolo di maggio su Education 2.0, Vittoria Gallina dava conto del quarto Focus prodotto dall’OCSE come riflessione sui dati di “Education at a glance 2011” e sul contributo che la scuola può realizzare in tema di mobilità sociale a fronte delle accresciute ineguaglianze dei redditi.
I risultati di queste indagini evidenziano come in Italia siamo ancora lontani dal contenere, almeno in parte, l’effetto del forte disagio economico sui risultati di apprendimento dei giovani. E la cartina di tornasole è proprio l’istruzione professionale.
I Paesi che hanno risultati migliori (Canada, Finlandia, Corea e Giappone) in genere sviluppano politiche che puntano a garantire un’educazione di livello elevato a tutti gli studenti; inoltre, riducono la varianza dei risultati attraverso una distribuzione equitativa di opportunità e risorse, che vuol dire anche una politica del personale della scuola in grado di garantire un’eguale distribuzione di professionalità dotate di particolare efficacia e di risorse per l’innovazione.
Le politiche scolastiche in Italia non possono più esaurirsi nel rientro all’interno dei parametri internazionali del rapporto docente-alunni, alunni-classe, alunni-scuola (e ora docente-orario di servizio) che è stata la necessaria priorità di questi anni, ma debbono dare segnali inequivocabili in tema di equità nelle opportunità educative volte a favorire la mobilità sociale.
Giuseppe Fiori