È possibile ipotizzare il superamento dell’insegnamento concordatario della religione cattolica?
Una riflessione di Osvaldo Roman che prende spunto dalle norme che si sono via via succedute in Italia per sciogliere i nodi dell'insegnamento religioso nel nostro Paese.
È questo l’interrogativo, come vedremo non realistico, che a seguito delle polemiche che hanno accompagnato la Sentenza del Tar del Lazio, che esclude l’insegnamento della religione cattolica (IRC) dalla determinazione dei crediti scolastici, si sono posti alcuni commentatori e in specie alcuni articoli di Eugenio Scalfari e di Giancarlo Bosetti apparsi su La Repubblica nella seconda metà del mese di agosto.
Questi commentatori giustamente mostrano grande preoccupazione per la gravità che potrebbe assumere a breve una situazione di coartazione di massa dei diritti delle minoranze religiose ormai presenti, per effetto dei fenomeni migratori, in dimensioni considerevoli, nella scuola statale.
Le ipotesi prospettate vanno dall’ introduzione di un insegnamento obbligatorio (sostitutivo di quello concordatario) riguardante una sorta di storia delle religioni in chiave antropologica, alla presenza di insegnamenti diffenziati per fede.
Per comprendere fino in fondo i motivi delle intransigenti chiusure provenienti dagli ambienti cattolici clericali occorre a mio parere partire in maniera corretta, circostanza raramente verificatasi nella vicenda in questione, dai reali contenuti della materia oggetto della contestazione e dall’effettiva collocazione dell’IRC nel concreto ordinamento normativo determinatosi dopo l’approvazione del nuovo Concordato soprattutto in virtù delle sentenze emesse dalla Corte Costituzionale a cavallo della fine degli anni Ottanta.
Con la sentenza n. 7076 del 17 luglio 2009 il Tar del Lazio ha accolto due ricorsi proposti per l’annullamento delle Ordinanze ministeriali emanate per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che prevedevano la valutazione della frequenza dell’insegnamento della religione cattolica ai fini della determinazione del credito scolastico.
Il Regolamento sulla valutazione DPR n. 122, controfirmato da Presidente della Repubblica il 22 giugno, ed entrato in vigore il 19 agosto 2009 dopo la sua pubblicazione sulla G.U. è stato erroneamente presentato come una risposta al TAR e come un ristabilimento della situazione prefigurata dalle ordinanze ministeriali, in realtà era stato definito prima di tale sentenza.
Un dato è certo: la Sentenza del Tar del Lazio non è un proclama ideologico ma si rifà puntualmente alle decisioni della Corte Costitituzionale.
È molto significativo che tali correlazioni non siano state prese in considerazione dai suoi detrattori, Gelmini in testa, perché era quello il terreno su cui si doveva sviluppare ogni rilievo di carattere critico.
Si tratta di una materia, quella delle condizioni poste dalla Corte Costituzionale, che risultò decisiva per la conferma della costituzionalità del Concordato.
Se vogliamo entrare realmente e seriamente nell’argomento dobbiamo considerare i seguenti passaggi:
1) l’IRC non concorre a definire la media dei voti che secondo la Tabella allegata al DPR 323 del 23/0771998 e successive modificazioni concorre alla definizione dei punteggi per i crediti scolastici;
2) il punteggio per il credito scolastico viene quindi determinato sulla base della media dei voti conseguiti (quindi nelle materie che danno luogo a voti), con un oscillazione aggiuntiva che viene determinata in considerazione dell’assiduità della frequenza scolastica, dell’interesse e dell’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari e integrative, nonché degli eventuali crediti formativi;
3) l’IRC non concorre ai crediti formativi, esterni alla scuola e non rientra neppure, per il proprio statuto, tra le materie complementari ed integrative.
Ma il vero problema che rende non valutabile tale insegnamento ai fini del credito scolastico è che tale evenienza creerebbe come ha evidenziato il Tar, una condizione privilegiata per chi se ne avvale e discriminatoria verso chi ha il diritto di non avvalersene senza subire alcuna limitazione o condizionamento nel suo stato di non obbligo. La materia del contendere è circoscritta in tale preciso ambito ed è regolata dalle sentenze della Corte Costituzionale.
Non riconoscerlo significa non riconoscere la validità di tali sentenze.
Nessuna delle valutazioni critiche si pone il problema di valutare in quali condizioni vengono offerte oggi le cosiddette materie alternative e più in generale qual è la situazione in cui si trovano gli studenti che non si avvalgono dell’IRC e in specie i più giovani tra loro. Le sentenze della Corte Costituzionale introducendo il principio di facoltatività, hanno modificato profondamente l’iniziale impostazione data dal M.P.I. con le sue circolari degli anni 1985-1987, che si muovevano in un’ottica di “opzionalità”, cioè di scelta alternativa e obbligatoria fra due attività equivalenti.
I principi presenti nelle sentenze che la Corte Costituzionale ha emesso sulla questione: n. 203/1989, n. 13/1991, n. 290/1992, si possono così sintetizzare:
• “i principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi”;
• la laicità dello Stato è un principio supremo, che definisce la forma di Stato delineata nella nostra Carta Costituzionale;
• la scelta di non avvalersi non produce alcun obbligo. “La previsione di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Su questi principi è necessario oggi riflettere e come si è detto purtroppo ciò non avviene.
Se quella descritta è la situazione in atto non è a mio parere realistico ipotizzare un superamento dell’attuale normativa concordataria ma mi sembra più saggio pretendere che i livelli di regolamentazione dell’IRC stabiliti alla fine degli anni Ottanta non vengano oggi disconosciuti riaprendo in tal modo uno scontro che si era positivamente concluso con quelle decisioni della Corte Costituzionale.
Osvaldo Roman