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Il piano dell’edilizia scolastica: c’è posto per un nuovo modo di fare scuola?

Pubblicato il: 13/05/2014 14:30:51 -


Investire sull’edilizia scolastica vuol dire sapere pensare in modo innovativo gli spazi della scuola, considerando due fattori chiave: i metodi di apprendimento e le tecnologie digitali.
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Gli interventi principali dell’annunciato piano per l’edilizia scolastica saranno ovviamente la messa in sicurezza, l’adeguamento alle norme dell’edilizia eco-sostenibile, la vivibilità e, talvolta, la semplice decenza. C’è posto per un obiettivo più ambizioso: promuovere una nuova generazione di edifici scolastici con strutture e spazi pensati per un nuovo modo di fare scuola? Almeno per cominciare questa è un’occasione da non perdere.

Ma come vanno pensati i nuovi spazi della scuola?
Per capirlo bisogna partire da uno scenario nel quale emergono due fattori principali: i metodi di apprendimento e le tecnologie digitali.
Vediamoli sommariamente.

1. L’apprendimento
La scelta di definire gli apprendimenti come competenze, disciplinari e trasversali, utili per la vita sociale, culturale e professionale, ha varie conseguenze didattiche:
– l’apprendimento deve realizzarsi meno con la trasmissione e più con l’indagine e la soluzione di problemi;
– la laboratorialità, intesa come apprendimento teorico-pratico in un contesto di strumenti, tecnologie e strutture materiali, deve caratterizzare tutte le discipline;
– oltre alle aggregazioni in classi, poco compatibili con questi principi, servono anche piccoli gruppi e lavoro individuale;
– gli orari settimanali rigidi diventano un ostacolo alla nuova didattica e serve più flessibilità: percorsi opzionali, articolazione dei tempi e dei luoghi in funzione delle diverse tipologie di competenze;
– la scuola è sempre meno il luogo esclusivo dell’apprendimento; si moltiplicano le opportunità extrascolastiche di accesso alla cultura (reti informatiche, musei, mezzi di comunicazione, ecc.) e l’acquisizione di competenze significative richiede un’immersione nella vita sociale e in particolare nel lavoro. Ma se, da una parte, la scuola deve raccogliere le opportunità formative del mondo esterno, deve anche dare risposte ai problemi concettuali ed etici che esso pone. Tende a crearsi un continuum culturale e organizzativo fra scuola e mondo esterno.

2. Le tecnologie digitali
– gran parte delle tecnologie che si diffondono dentro la scuola sono le stesse che i giovani trovano nella società: questo favorisce lo sviluppo del continuum fra dentro e fuori. Per esempio il compito a casa tende a diventare, come nel telelavoro, una continuazione diretta del lavoro a scuola; gli strumenti d’informazione e di comunicazione nati nella società tendono a importare nella scuola nuove pratiche d’acquisizione delle informazioni, di socializzazione e di cooperazione;
– le tecnologie digitali (LIM, Tablet, PC), che entrano sempre più massicciamente nella scuola, creano uno spazio virtuale che si sovrappone a quello fisico al quale spesso tendono a togliere senso: ad esempio l’uso di strumenti cooperazione e di socializzazione ha poco a che fare con l’aula tradizionale.

La discussione sull’architettura scolastica non è molto intensa.
Ci sono però stati alcuni passaggi istituzionali. Nel 2012 il tema è stato affrontato nel convegno “Lo spazio che insegna” organizzato dall’Indire sul cui sito si trova una sezione con lo stesso titolo. È seguita, nell’aprile 2013, l’approvazione, nella Conferenza Unificata, delle Linee Guida MIUR relative alle norme tecniche dell’edilizia scolastica.

Tentiamo una sintesi delle parti del documento riferite all’apprendimento.
Anzitutto si enuncia un principio generale: nella scuola ci saranno punti di maggiore specializzazione (palestra, strutture scientifiche e tecnologiche), punti di media specializzazione e alta flessibilità (aule-sezione e spazi connessi), punti generici, ma non di puro transito (connettivi, luoghi relazionali e attività informali).
C’è inoltre un insieme di spazi (impianti sportivi, spazi a cielo aperto, la piazza e l’agorà) che non solo permettono varie forme di attività incluso l’apprendimento informale, ma essendo aperti al territorio, connotano la scuola come un vero e proprio centro civico.
Gli spazi per i docenti sono, com’è ovvio, reali ambienti non solo di socializzazione, ma anche di studio e ricerca.
Si suggerisce poi un’articolazione specifica dei luoghi di apprendimento:
– la sezione/aula o spazio-base;
– il laboratorio/atelier specialistico;
– ambienti per gruppi di lavoro con vari modi d’aggregazione; – lo spazio individuale;
– lo spazio informale.
Particolarmente interessante è il modo in cui viene definita l’aula/sezione: “… la nuova scuola nasce da un nuovo modello di apprendimento e di funzionamento interno, dove la centralità dell’aula viene superata. Le aule/sezioni diventano un luogo di appartenenza importante ma non autosufficiente, consentono attività in piccoli e grandi gruppi ma anche individuali, pareti scorrevoli consentono di coinvolgere spazi interclasse o di allargarsi negli spazi comuni rendendo i confini della sezione sfumati e flessibili. Non tutto viene svolto nella classe che è parte di un organismo più complesso: la sezione/aula è una ‘home base’, una casa madre da cui si parte e a cui si torna, caratterizzata da una grande flessibilità e variabilità d’uso. Questa ‘diluizione’ nel tessuto scolastico avviene in modo diverso e progressivo in funzione del tipo di scuola e dell’età degli alunni”.

Sulle aule o aule/sezione ci sono però – al di là delle Linee Guida – punti da chiarire.
I laboratori/atelier sono spazi in cui si concentrano attrezzature specializzate, nei quali si sviluppano le competenze più complesse, particolarmente necessari per le discipline d’indirizzo nella scuola secondaria superiore. Ma, se pensiamo che la laboratorialità debba essere un fattore costante dell’apprendimento, anche nelle discipline di base non specialistiche, occorre che le aule (o sezioni/aula) siano attrezzate per questo. In parte possono essere le tecnologie digitali a risolvere questo problema, ma, almeno per alcune discipline (ad esempio le scienze, l’arte, la musica e la tecnologia) servono anche attrezzature dedicate, sia pure leggere. Si può puntare su attrezzature conservate in alcuni punti e facilmente distribuibili, quando servono, nelle singole aule.
Oltre a questo modello se ne può pensare anche un altro: almeno una parte delle aule potrebbero essere in realtà aule-laboratorio dedicate a discipline specifiche (da non confondere con i laboratori-atelier specialistici). Questo modello si sposa con una scelta organizzativa comune in alcuni paesi e quasi assente nel nostro: i docenti dovrebbero “attendere” gli studenti nella loro aula dedicata, dove gli studenti dovrebbero raggiungerli. Si capisce che non si tratta solo di risolvere il problema pratico delle attrezzature, ma di cambiare il senso di uno spazio: la “stanza” non ha più la funzione di garantire l’unità del gruppo-classe, ma quella di trasmettere i numerosi segnali materiali di un dato ambito culturale. La ragione per cui questa soluzione è poco praticata da noi è che in concreto non esiste nei curricoli il concetto di opzionalità. Se si vuole introdurlo occorre prevedere classi ad assetto variabile per una parte del tempo. E se si è scelto, per quella parte, di studiare una disciplina invece che un’altra, è naturale che si vada nello spazio a essa dedicata.

La domanda che viene naturale è: quanto c’è di utopico e quanto di realistico in questa immagine della scuola?
Dipende da molti fattori, per esempio le intenzioni e la cultura pedagogica di chi commissiona i lavori e di chi deve fare i progetti. Ma il punto cruciale è il ruolo della scuola stessa (docenti e dirigenti).
Oggi la scuola non sempre esprime l’esigenza delle trasformazioni della didattica e quindi delle nuove architetture scolastiche. Gli interessanti esperimenti delle aule 3.0 fatti in alcune scuole, basati largamente sulle tecnologie, propongono aule che superano il tradizionale schema cattedra-banchi, mediante assetti variabili e modulari. Nelle scuole ricche di laboratori cose del genere si praticano in parte da qualche tempo. Ma si tratta di trasformazioni limitate a poche aule, a volte una sola aula-emblema, che non cambiano l’organizzazione generale della didattica.
Allora, lasciar fare ai soli architetti? Può essere un errore: come la storia insegna le fughe in avanti dell’architettura a volte creano disfunzioni. Il problema degli spazi è complesso. Le “Linee Guida” sono un importante (e ambizioso) punto di riferimento. Passare ai progetti specifici è un problema che va risolto caso per caso, sul territorio con il coinvolgimento di tutte le componenti amministrative, tecniche e pedagogiche. Anche se le scuole non sono amministrativamente le committenti dei progetti, occorre coinvolgerle.
L’innovazione, anche in questo caso, procede in parte per invenzioni e in parte per imitazione delle realizzazioni di successo. Occorre quindi seguire alcuni progetti, diffondere le idee e discuterne.

Per concludere: questi ragionamenti acquistano un senso pieno quando si parla di nuovi progetti, ma sappiamo che il più delle volte si tratterà, al massimo, di ristrutturazioni. Ma in un paese antico come il nostro abbiamo appreso l’arte di ricavare il nuovo dal vecchio (abbattere qualche barriera, arredare in modo intelligente). Sarà utile, anche in questi casi, tenere presenti i principi generali di cui si è discusso.

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Immagine in testata di wikipedia (licenza free to share)

Mario Fierli

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