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A che punto è la lotta alla dispersione scolastica?

Pubblicato il: 15/06/2015 16:53:30 -


Intervista a Daniele Checchi – Professore in Economia Politica - Università Statale di Milano
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Vorrei inquadrare il problema della dispersione partendo da alcuni dati: l’Italia entro il 2020 deve abbattere la dispersione di 10 punti percentuale, questo significa che il nostro Paese in soli cinque anni dovrebbe garantire il 90% di diplomati contro una media attuale che si assesta intorno al 70%. Se si disaggregano i dati, la dispersione risulta più accentuata nel mezzogiorno, con punte del 30% e, in particolare, il tasso più elevato si registra negli istituti tecnici e negli istituti professionali; interessa inoltre più la componente maschile rispetti a quella femminile e la percentuale di dispersione diventa significativa quando riguarda gli alunni di nazionalità straniera.

Nel novembre scorso la VII Commissione della Camera dei Deputati ha pubblicato sulla dispersione un rapporto dettagliato e l’on. Santerini, da me intervistata, ha proposto al Governo “di istituire una unità di crisi, una task force”, capace di mettere in relazione le istituzioni (Miur, il Ministero del lavoro, le Regioni, gli enti locali, le associazioni…) per affrontare in modo coordinato e sistemico il fenomeno della dispersione. Di questa proposta sinora non c’è stata una traduzione operativa.

Nel Disegno di Legge in discussione al Senato ci sono alcuni passaggi che richiamano la necessità di intervenire sul tema della dispersione, ma non ci sembra che questo argomento così rilevante anche sul piano socio-economico, venga data una priorità specifica.

Partiamo allora da questo punto, dai costi economici e sociali che il fenomeno della dispersione determina. Lei ha messo in evidenza nella ricerca che ha curato per We World insieme alla fondazione Bruno Trentin e alla Fondazione Agnelli proprio questo aspetto, può spiegare qual è il costo della dispersione per il nostro Paese?

Occorre anzitutto distinguere tra costo individuale e costo collettivo. Nel primo caso è rilevante capire quanto costa, in termini sociali, occupazionali e di welfare state la diversa carriera lavorativa di una persona meno istruita e formata. Nel secondo caso invece si deve ragionare sul costo collettivo del fenomeno della dispersione, ovvero quanto la collettività si fa carico nei termini di cui sopra di una popolazione che in vecchiaia appare più indigente, anche a causa di una posizione più precaria e potenzialmente tendente a disoccupazione e inoccupazione.

Le ipotesi di costi veri e propri, tuttavia, sono spesso azzardate, poiché si tratta di immaginare se una platea di un milione di individui senza un titolo di studio secondario possa o meno avere, una volta raggiunto un livello tale di istruzione, le stesse possibilità dei cittadini istruiti.
Le ipotesi, in uno scenario ottimale e positivo porterebbero a ritenere possibile un incremento del PIL tra l’1 e il 4%. Tale stima tuttavia dovrebbe essere corretta al ribasso, poiché buona parte di coloro che hanno una bassa scolarità presenta appunto problemi di collocabilità nel mondo del lavoro: non possiamo sapere se con un titolo di studio adeguato costoro sarebbero in grado di risolvere tali problemi.

Dalla pubblicazione della ricerca da lei curata e titolata come un famoso serial televisivo americano, “Lost”, emerge che il tasso di abbandono scolastico in Italia è decisamente superiore rispetto ai dati ufficiali di Eurostat. Da cosa dipende questo scostamento? Quali sono i dati “reali” relativi al tasso di abbandono in Italia?

Nel nostro Paese il tasso di abbandono è superiore che altrove, ma va analizzato in modo diverso, a seconda degli indici di cui disponiamo.
In base all’Eurostat Early School Leavers – che conteggia i cittadini che tra i 18 e i 24 anni non hanno raggiunto alcun titolo di formazione secondaria, né percorsi di formazione professionale, o qualifiche biennali e triennali, o formazione su lavoro nell’ultimo mese – la percentuale si attesta per l’Italia intorno al 15-16%.

Secondo l’OCSE invece i tassi di abbandono sono decisamente maggiori, poiché vengono conteggiati solo i livelli di istruzione secondaria che potenzialmente conducono all’università o alla formazione terziaria (escludendo di fatto le qualifiche professionali di due o tre anni). In questo secondo caso la percentuale del nostro Paese si attesta attorno al 30%. Considerando tuttavia che gli obiettivi di Lisbona 2020 impongono il raggiungimento della percentuale del 40% di cittadini con titolo di studio terziario, si rende necessario ragionare sulla sequenzialità del processo formativo e soffermarsi più attentamente sui dati OCSE, che osservano il numero di persone prive di un’istruzione secondaria necessaria per accedere ad una eventuale istruzione terziaria.

Nella ricerca viene data particolare rilevanza al terzo settore. Quali sono gli elementi maggiormente significativi che emergono dalla ricerca?

In base alla recente ricerca sono emersi diversi elementi interessanti. Colpisce anzitutto la straordinaria eterogeneità di questo settore: si va dagli interventi strutturati di Save the children, alle formule semplici ed estemporanee ma ancora efficaci dei vari dopo scuola parrocchiali. Si osservano altresì differenze territoriali e assenza o presenza di sinergie coi vari enti a seconda dei contesti.
Al nord, per esempio, il recupero scolastico è attività naturalmente presente e ben strutturata, mentre al sud è in genere una pratica declinata come fenomeno di aggregazione giovanile.

Contesti diversi producono ovviamente esiti diversi e una programmazione delle attività molto differenziata che spesso deve occuparsi di problematiche estremamente variegate.
L’aspetto più significativo su cui porre l’accento è infatti relativo alla flessibilità del terzo settore e alle numerose attività disponibili: dal recupero scolastico all’integrazione di stranieri e disabili, dall’inserimento di ragazzi provenienti da strutture carcerarie all’aggregazione sportiva e culturale, dall’organizzazione di gite scolastiche alle attività in biblioteca, ai percorsi laboratoriali, all’inserimento di minori nomadi e Rom … E così via.
Per ognuna di queste attività un’istituzione pubblica dovrebbe deliberare bandi appositi ed individuare esperti. La peculiarità del terzo settore permette invece di agire su più linee d’intervento in contemporanea, anche grazie al volontariato e alle numerose collaborazioni di giovani e personale, purtroppo precario, al suo interno.

Quali dovrebbero essere i punti di intervento da parte delle istituzioni pubbliche (parlo delle scuole, degli enti locali, della regione e del governo) per contrastare in modo efficace la dispersione scolastica?

Una vera lotta alla dispersione dovrebbe anzitutto partire dall’abolizione delle bocciature come unica strategia. Esse, infatti, non solo non risolvono i problemi alla radice ma, al contrario, contribuiscono spesso a rendere accidentati i percorsi dei futuri drop out.
Ciò detto, è anche vero che i ragazzi a rischio smetterebbero probabilmente di frequentare a prescindere dall’insuccesso scolastico.

In zone deprivate si potrebbero quindi attivare sperimentazioni: l’erogazione di sussidi in base alla presenza del minore a scuola (attuate in ambiente anglosassone con successo parziale) potrebbe essere una possibilità. In Italia si è tentato di attuare il cosiddetto reddito di inserimento, ma senza poi una analisi approfondita delle ricadute.
Anche consentire l’utilizzo delle scuole in orario extrascolastico potrebbe rivelarsi efficace: in tal modo spazi culturalmente attivi potrebbero fungere da luoghi importanti di aggregazione giovanile, estremamente richiesti soprattutto al sud e nei contesti più difficili.

Un’ulteriore – e ancora più efficace – linea d’intervento potrebbe essere la ristrutturazione dei percorsi scolastici, attraverso la creazione di un biennio unificato di scuola secondaria di secondo grado che consenta una scelta più consapevole dei percorsi e degli indirizzi a 16 anni; si eviterebbe così una canalizzazione precoce dei destini dei quattordicenni, spesso ancora acerbi e immaturi per affrontare una scelta così importante e destinati in tal modo a subire l’eventuale contraccolpo di decisioni affrettate o sbagliate.

Per approfondire: Associazione Bruno Trentin, Fondazione Giovanni Agnelli, We World Intervita, “Lost – dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore, Ediesse.

Walter Moro

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