Le mutevoli denominazioni di un ministero
Non c’è nulla di più mutevole dei ministeri a dispetto delle loro granitiche sembianze, mutevoli nei nomi e nelle perenni e consequenziali riorganizzazioni interne degli uffici di vario livello.
Per gli studenti delle scuole romane è un appuntamento fisso, come per gli insegnanti precari delle varie regioni italiane: a Viale Trastevere davanti alla Pubblica Istruzione.
La facciata con statue e gruppi scultorei, caratteristica del gusto scenografico di Cesare Bazzani, ha simboleggiato fin dal nome le epoche e i turbamenti della scuola nel nostro Paese.
La denominazione “Ministero dell’Educazione Nazionale” che ancora si può intravedere incisa sulla facciata riguarda un’epoca, quella fascista, in cui la scuola doveva appunto educare i giovani ai compiti fissati dallo Stato totalitario e quindi totalizzante. Certo il Ministro Gentile fece spiccare un salto di qualità all’istruzione secondaria, ma è con la fine del fascismo che il termine istruzione sostituisce quello di educazione e viene integrato da quello di pubblica ( acronimo MPI ) a indicare che la scuola pubblica, la scuola di tutti e per tutti, doveva realizzare le finalità previste dalla Carta Costituzionale.
Ma quel “pubblica” sembrò, a un certo punto, quasi anticlericale dato che le scuole private, oggi “paritarie”, sono per lo più confessionali e così, alla fine del secolo scorso, il “Ministero dell’Istruzione” fu tanto onnicomprensivo da accogliere anche l’Università e la Ricerca (acronimo MIUR).
Già perché un tortuoso cammino di frazionamento di Palazzo Bazzani aveva, prima, portato all’uscita dei Beni Culturali e poi a quella dell’Università e della Ricerca, rientrate, queste ultime, nella nuova aggregazione istituzionale per poi riuscirne poco dopo, forse definitivamente. Com’è ovvio a queste diverse e mutevoli denominazioni corrispondono consequenziali riorganizzazioni dei dipartimenti, delle direzioni generali e degli uffici, in una perenne mutazione di strutture concepite per garantire la continuità se non proprio l’immobilità.
Abbiamo così accertato che, nel tempo, non c’è nulla di più mutevole dei ministeri a dispetto delle loro granitiche sembianze, ed è con questo spirito che accogliamo le nuove integrazioni di “made in Italy”, di “sovranità alimentare” e di “merito” ai relativi ministeri. Anche se bisogna ammettere che la sorte toccata all’Istruzione è degna della penna satirica di Augusto Frassineti (non a caso a suo tempo ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione) e del suo famoso “I misteri dei ministeri ”, pietra miliare per la comprensione del mondo politico – burocratico.
L’ironia, stavolta della sorte, ha poi inseguito quel sommo scrittore – apprezzato da Ennio Flaiano e da Mario Soldati, da Italo Calvino e da Pier Paolo Pasolini – fino ai giorni d’oggi, dato che alla carica di Sottosegretario di Stato nell’odierno Ministero è stata destinata una Frassinetti (con una t in più) per rinnovarne i misteri.
L’approdo attuale è quello di “Ministero dell’Istruzione e del merito” (acronimo MIM), che è una mossa spiazzante come quella del cavallo nel gioco degli scacchi. Intendiamoci anche il merito come l’istruzione è presente nella Costituzione, con l’articolo 34: ”I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
E allora la nuova denominazione segna un riscatto per una mobilità sociale troppo a lungo inceppata proprio dalla scuola egalitaria ? Alcuni lo pensano – chi scrive non è tra questi – e ritengono che il solo aver innalzato la bandiera del merito possa dare una svolta alle tematiche educative.
In questi giorni i maggiori quotidiani sono prodighi di apprezzamenti, un esempio per tutti Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 27 Ottobre: “La verità è che la scuola italiana non è scuola dell’eguaglianza proprio perché non è scuola del merito”.
Salvo perdersi poi nei meandri di una pedagogia del merito ancora da individuare.
Una costruzione comunque possibile, ma che realizzerebbe una sorta di ministero pedagogico legittimato a indirizzare l’azione didattica verso quell’unica meta. Un rischio che la scuola italiana, dalla seconda metà del Novecento, ha saputo laicamente scongiurare.
In controtendenza rispetto al plauso generale c’è l’articolo del 2 Novembre, sempre sul Corriere, di Paolo Giordano che ricorda quanto “la scuola si trovi ad assorbire e gestire buona parte della complessità sociale lasciata intatta dalle altre istituzioni e dalla politica stessa”. E aggiungerei che questa costruzione è basata su una relazione dinamica con le principali istanze educative del nostro tempo: i linguaggi dell’apprendimento, la realizzazione della mobilità sociale e l’eguaglianza delle opportunità secondo il dettato costituzionale, il rapporto centro-periferia e Nord-Sud, lo sviluppo della personalità di ogni studente, il tormentato rapporto giovani-adulti, la crisi delle humanities e le nuove frontiere culturali dell’era digitale.
Sembra dunque più necessario adoperarsi per l’innalzamento dei livelli d’istruzione e di apprendimento, che sono i parametri presi in considerazione dalle rilevazioni internazionali, spesso penalizzanti per la scuola italiana, e considerare che parole tratte dal lessico educativo – come merito e talento – facciano piuttosto parte delle realtà quotidiane con cui si confrontano docenti e studenti. Interessati senz’altro a realizzare una scuola che dia ampio spazio al merito, ma non meno ampio al processo di riconoscibilità dei talenti, tutto questo nel pieno esercizio della libertà d’insegnamento a cui non tutti sembrano badare.
Senza dimenticare o peggio osteggiare lo sforzo, spesso inane, di dare un’eguale possibilità di istruzione anche ai non talentuosi e agli immeritevoli riottosi all’apprendimento, in nome proprio del principio costituzionalmente protetto di uguaglianza.
Nel ricco mosaico delle norme costituzionali in tema di istruzione, alle soglie del nostro secolo si è aggiunta quella dell’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117), autonomia sia negli aspetti organizzativi che in quelli didattici, ed è nel quadro di queste norme che trae impulso l’attività dei docenti a cui ben poco aggiunge o toglie il nuovo misterioso nome del competente ministero.
Ottimo articolo nei contenuti e nelle condivisibili riflessioni sul “merito”