Il PCI e la scuola – Intervista a Luigi Berlinguer
Apriamo la serie di contributi su Il PCI e la scuola con una articolata riflessione di Luigi Berlinguer che ricostruisce il suo percorso dalla adesione al PCI all’impegno sulla scuola.
Non ti chiedo di dare l’avvio alla serie di contributi su Il PCI e la scuola con un editoriale da direttore della rivista, ma mi rivolgo al giovane che si accosta al partito comunista italiano nella Sardegna degli anni ’50 del secolo scorso e ne diventa dirigente a livello locale. Che cosa ti ha spinto a fare questa scelta politica? In che modo questa rispondeva a un tuo percorso di crescita personale e intellettuale? Cosa ti aspettavi di poter avere da questa esperienza ?
Quando ci si avvicina all’attività politica è chiaro che la prima motivazione è molto generale, complessiva, non legata a un tema particolare. La volontà è soprattutto quella di entrare in un circuito intellettuale, ma non solo, direi anche pratico, in un luogo di azioni e di relazioni con altri in un determinato ambiente: penso alla mia città di origine o ad altri ambienti consimili. Tutto questo fa prevalere un interesse a grandi idee generali, è questo interesse che caratterizza quel tipo di approccio, che diviene poi militanza, è comunque desiderio di impegno concreto. Il tema specifico della politica scolastica emerge dopo, anche se abbastanza presto. C’è da aggiungere che nella nostra storia e nella tradizione nella sinistra, prevale come punto di riferimento verso cui si orienta l’azione è quello del mondo operaio, del sindacato generale, e non quello di categoria.
Faccio anche un’altra considerazione. Per quanto riguarda la politica scolastica, se ripenso alle varie forme organizzative, alle quali si doveva aderire, per svolgere l’attività politica, bisogna dire che la sinistra, e quindi il movimento operaio, il grande sindacato generale, i partiti della sinistra in genere hanno tardato ad avere una linea scolastica e un’idea di riforma generale della scuola. Su questi temi ci si fermava a formulazioni un po’ generiche. I partiti di sinistra, in materia del rapporto della cultura con la cultura scolastica o con le idee progressiste sulla scuola, restavano un po’ distanti, anche perché la gran parte delle idee progressiste sulla scuola venivano dettate dagli insegnanti, che erano, anche per ragioni di ceto, il soggetto principale della scuola, quello più attivo, quello più elevato per preparazione personale e anche il più organizzato.
In quale momento e perché hai sentito che la scuola era un terreno di lavoro fondamentale per un giovane che si voleva impegnare in politica? Scusa se sono banale, ma ti chiedo: qual è l’idea, l’elaborazione che hai trovato nel PCI più vicina a quello che sentivi anche emotivamente rispetto al bisogno di cambiamento del sistema educativo che avevi davanti?
Io mi ricordo che sono venuto maturando più o meno lentamente la necessità di affrontare in forma più radicale e organica le tematiche educative. Questo però è avvenuto all’inizio senza un grande mordente; quindi nella lunga militanza politica che ha caratterizzato il non breve periodo iniziale, aveva prevalso l’interesse politico generale di adesione alla sinistra e al partito piuttosto che quello di una motivazione della categoria alla quale appartenevo.
Questa è un po’ la prima considerazione, ma ne vorrei fare un’altra. La maturazione di alcune idee sul cambiamento dell’impostazione educativa propria dello Stato italiano è avvenuta lentamente, con degli spunti iniziali, per approcci particolari e solo negli ultimi anni è apparso più chiaro che voler parlare di scuola da comunista, da membro di un’organizzazione di sinistra, da un’idea di sinistra, diciamo così, ci avrebbe portato, come ci ha effettivamente portato, alla posizione che abbiamo finalmente assunto. È l’idea che io sostengo con energia: la scuola va radicalmente cambiata.
Essere di sinistra, portatore dell’idea generale di sinistra, comporta strettamente la convinzione che questa scuola non esiste più; se nell’avvenire del Paese, nell’avvenire delle giovani generazioni, non assolve più alla funzione importantissima che ha assolto nel passato, le viene a mancare l’alimento teorico culturale principale ed è su questo che io sono venuto maturando il bisogno di dare un contributo più incisivo. Più che occuparsi di scuola si tratta di prospettare ‘quale scuola’ e quindi, più che occuparsi di politica educativa si deve cogliere il nesso, il concetto di fondo che l’attività educativa forma l’essere umano, favorisce la strutturazione mentale dell’essere umano. Questa è una radicale impostazione di cambiamento che porta con sé, per esempio, un primo punto, che ancora è tutto da conquistare nella realtà: l’attività educativa non può il semplice essere trasferimento di conoscenze. Non si va a scuola solo perché lì i docenti e l’attività dell’istituzione scolastica ti insegnano determinate cose: non può essere accettata l’idea dominante che l’attività scolastica è quella di trasferimento di conoscenze. Non ha più senso la concezione che il docente è soltanto portatore della sua preparazione professionale e quindi è un italianista o un latinista o matematico, un fisico e quindi è prima di tutto un italianista, un matematico, un fisico e non un docente, non un formatore; così la sua spinta principale è quella di portare nelle aule scolastiche il sapere matematico, il sapere fisico, il sapere letterario e il sapere storico eccetera. Ecco, ora questo non può più accadere, non è più la scuola. La scuola deve formare, non solo informare e trasferire conoscenze, deve dare a bambini e ragazzi il gusto della scoperta, il valore della conoscenza e dell’impegno per se stessi e per gli altri.
a cura di Vittoria Gallina
Si potrebbe aggiungere che la scuola, come impariamo in questa epoca di dad, è un momento molto importante di socialità sia per bambini che ragazzini e adolescenti. Inoltre la scuola è un momento di disciplina mentale e fisica con l’obbligo di dedicare ore allo studio e allo stare in classe. Si auspica che il trasferimento delle conoscenze, necessario, comporti alla fine per gli alunni anche la consapevolezza di sè e dei valori della cultura e del civismo. Infine tutto ciò implica un grande sforzo di formazione degli insegnanti per accrescere le loro capacità didattiche e di maestri di vita.
Giorgio Capon