In fondo alla catena istituzionale: la scuola dell’autonomia
Ragioni e paradossi di una protesta. Una testimonianza dal buio della scuola. Una “lista” per la scuola alla radice dell’autonomia mai avviata.
Situazione molto complessa. Certamente complicata dal poco interesse per la scuola, protagonista solamente in tempo di proclami. Semplificare in denunce, slogan o spot è accantonare intenzionalmente un problema di difficile soluzione e, quindi, di grande impegno. Una scuola confusa, con pochi dati certi, quelli che la confinano in un’anomalia di sistema, in uno stato di incertezza intrinseca dove tutto è consentito; dare nulla e togliere tanto, fino a lasciarla come un “quark” invisibile nel suo nucleone: sappiamo che c’è, ma non “sentiamo” il bisogno di vederlo, per sapere come può essere fatto e con chi deve essere costretto a vivere. Questo articolo è un piccolo viaggio attraverso il disagio, nel buio pesto della scuola. Quel disagio che alimenta la difficile condizione della scuola sbattuta, da un lato, dal suo “genius loci” (com’è noto dalle esperienze di eccellenza di Convegni come Experimenta e Education 2.0), e dall’altro, dal suo disperato bisogno di essere prima capita (visto le recenti battute del Premier a “Che tempo che fa” di Fazio) e poi aiutata. Cominciamo con una ‘lista’, di quelle che piacciono a Fazio, Saviano, Gramellini, e… anche a noi.
Mi fermerei (e la potremmo fare lunghissima), per proseguire in prosa.
Le scuole d’Italia sono tutte in stato di fallimento. Si è detto tante volte ma non credo si sia capito fino a che punto. La correlazione, poi, tra il fallimento della scuola e autonomia, democrazia, educazione, analfabetismo, occupazione, salute, sicurezza, ambiente, creatività, e tantissimo altro, è estremamente forte, al punto che ritengo non sia possibile la riducibilità di questo sistema di correlazioni al ruolo svolto unicamente dalla scuola. L’irriducibilità di questa correlazione, delle componenti di questa “lista”, è la principale tesi di questo intervento.
Torniamo quindi allo stato di fallimento delle scuole. Intanto, non appare così perché lo “Stato” costringe le scuole pubbliche a dichiarare i cosiddetti “residui fissi” [1] come voce di bilancio in entrata, ma disattendendo con puntuale cronicità l’effettiva erogazione delle somme ad essi corrispondenti, immobilizza i bilanci delle scuole. E sempre meno le scuole si trovano in condizioni di poter spendere per le proprie necessità, ed ancor meno ad investire nel miglioramento dell’offerta formativa, nell’innovazione tecnologica e nella didattica. È la rappresentazione del “buco nero” di bilancio: quando entrano in bilancio fonti di finanziamento non statali – vedi, ad esempio, i contributi delle famiglie – questi vengono immediatamente risucchiati e spariscono…: esami di stato, supplenze, corsi di recupero, compensi accessori (cioè i compensi per le attività progettuali tanto vitali quanto trasversali), e quant’altro, sono stati pagati anticipando decine e decine, spesso centinaia di migliaia di euro… che lo Stato ancora non restituisce. Ma restituirà mai? Quindi, lo Stato maschera il debito della scuola, come quello delle altre istituzioni (Municipio, Provincia, Regione, Ufficio scolastico regionale, Ministero, con tutti i suoi dipartimenti). Il buco nero è “glocal”. Proprio come per le banche, che dopo prestiti agevolati fino al 100%, ora si ritrovano senza cassa e costrette al “recupero forzato”; le scuole, dal canto loro, sono costrette a chiedere aiuto alle famiglie. E, nonostante le benemerite dichiarazioni di intenti delle innovazioni ministeriali, nell’avvio delle nuove procedure amministrative e contabili del 2009/10 (capitolone, cedolini unici…), le scuole hanno continuato ad accrescere il proprio debito allargando, così, indiscriminatamente la superficie del buco nero.
Quindi, i “tagli lineari” si abbattono su una situazione di debito grave che resta completamente intonsa; essi mirano a risanare (?) il debito dello Stato ma non quello delle scuole “autonome”. Autonome? Autonomia finanziaria? Il controllo del debito scolastico passa attraverso il controllo dei “flussi di cassa” che rileva l’incapienza delle casse scolastiche e non pare ci sia alcuna intenzione di cercare le coperture necessarie per questo disavanzo. Nel contempo, si è appena chiuso un triennio di tagli del personale e se ne è aperto un altro che riduce sempre di più le risorse umane, e poco importa che un dirigente abbia “tecnicamente comunicato” il numero minimo di risorse umane necessarie alla “vigilanza” ed al funzionamento della struttura. Le risorse “attive” (occupate), poi, sono in una condizione di grande precarietà per un mercato economico dove il potere di acquisto diminuisce ed i consumi seguono il crollo del mercato del lavoro, “mercato” anch’esso in agonia. In questo contesto calamitoso e di proporzioni catastrofiche, se non apocalittiche, per il mondo politicorestano due vie di fuga alla scuola: il volontariato e la privatizzazione.
Sulla prima soluzione, c’è da dire che la nostra politica sta facendo del suo meglio, cercando una santificazione in quel che potrebbe essere uno dei miracoli più stupefacenti della storia: trasformare il “dipendente pubblico” in un “volontario di sistema”. Il pubblico è fallito come “sistema societario” e, quindi, non gli resta che far sopravvivere i “bisogni formativi” in un ambito di azione che è quello del volontariato. Ovviamente, perché, nonostante tutto, per salvaguardare il proprio posto di lavoro, anche se “al limite”, il dipendente pubblico (vuoi il docente come pure il tecnico, l’amministrativo e il collaboratore scolastico) è costretto a cercarsi le iscrizioni con il fatidico “orientamento”, una sorta di puro marketing che “attiri” più studenti possibili, in modo da costituire quel numero di classi sufficienti a “conservare” il suo orario (posto) di lavoro. Tutto ciò, inoltre, non è affatto in contraddizione con il risultato delle sue azioni. Infatti, dopo “anni di istruzione pubblica” assistiamo al diffondersi di un analfabetismo di fondo che torna a fare la parte del leone. Pertanto, proprio perché la scuola pubblica è fallita e non funziona (entrambi cavalli di battaglia dei contrari, nella tabella, i sostenitori dei paradossi), ebbene, deve diventare oggetto del (forse è meglio dire, “finire in mano al”) terzo settore (vedi appresso per la dimostrazione).
Per quel che riguarda la seconda soluzione, occorre innanzitutto fare chiarezza sulla differenza tra scuola privata e “privatizzazione”. La scuola pubblica, così com’è, non può restare a lungo. La società si è trasformata e le riforme degli ultimi dieci anni cercano in tutti i modi di farne una scuola all’altezza dei tempi. Ma continua a essere dissociata, separata, distante dai bisogni sociali e ‘soprattutto’ da quelli formativi rispetto all’inserimento al lavoro. Se l’obiettivo è quello di una “struttura di istruzione” a supporto del mondo produttivo, in cui si opera la “formazione e selezione” delle competenze richieste dal mondo del lavoro, allora occorre sostenere lo sviluppo di “scuole partecipate”. La partecipazione del privato nelle scuole deve essere concepita con un obbligo alla partecipazione finanziaria in quote ben definite in modo da garantire privilegi a chi finanzia (limitandone il potere) e quote di maggioranza alla parte pubblica (con i suoi fondi pubblici, anche locali) che deve garantire l’uniformità degli apprendimenti e delle linee generali sui contenuti di base che ogni cittadino del mondo deve possedere per non cadere nel baratro dell’analfabetismo funzionale (come, ad esempio, le competenze tecnico-professionali e quelle di cittadinanza). Un organismo garante deve assicurare la partecipazione aziendale attraverso l’obbligo di collaborazione per settore e la sua quota di partecipazione finanziaria, con una o più scuole, attraverso l’introduzione di un vincolo della formazione aziendale a quella scolasticapena una maggiore tassazione del capitale aziendale. Trasformare le scuole pubbliche in scuole partecipate significa avviare una privatizzazione delle attuali scuole statali, in modo dastrutturarle in simbiosi con il mondo produttivo, con obblighi aziendali (sulla “responsabilità sociale d’impresa”) governato dalle organizzazioni bilaterali o di rappresentanza, come la Confindustria. Il risultato sarebbe un inserimento al lavoro mirato. Questo non è quello che si ha con le attuali scuole private. Le scuole private rappresentano una versione diversa di offerta formativa che può contare su un finanziamento privato e su un finanziamento statale per una qualità dell’istruzione “decisamente discutibile”. Io credo che il finanziamento statale oggi riservato alla scuola privata debba essere invece destinato alle scuole partecipate, opportunamente normate, mentre la scuola privata debba avere il solo finanziamento privato (come una s.r.l. qualunque). Insomma, emulando la ripartizione degli enti pubblici inenti pubblici statali, enti pubblici non economici ed enti pubblici economici, si potrebbe pensare ad una offerta territoriale più articolata e destinata al superamento della dicotomia scuola pubblica–privata. Le scuole partecipate dovrebbero essere “strutturate” in modo da innescare una dinamica territoriale da indurre una correlazione certa tra pubblico e privato, una correlazione di interessi che garantisca un valore aggiunto ad entrambi. Ma tutto ciò, ora, non esiste. Oggi abbiamo delle scuole private che hanno una libertà economica diametralmente opposta alla schiavitù finanziaria della scuola pubblica: la schiavitù è connessa al fatto che in assenza di merito, una scuola pubblica finanziariamente virtuosa, può essere meno sostenuta dal contributo statale, in quanto il suo “guadagno” nel tempo può essere dirottato verso la scuola sofferente (indipendentemente dal suo merito). Quindi, la scuola pubblica non solo vive il fallimento ma, pure, la pena di pagare la sua virtù, mentre la scuola privata a prescindere dalla sua condizione di merito resta sempre finanziata da tutti e dal contributo statale. La scuola privata è finanziata dalle rette degli iscritti e dal contributo statale. Le scuole pubbliche, invece, sono finanziate dalla miseria del contributo statale (includendo l’ammontare della spesa per gli stipendi) e sono minacciate di illegittimità se osano elemosinare una penosa somma forfettaria annuale alle famiglie.
Ci si chiede, quindi: che fine ha fatto la nostra tanto perfetta e tanto vituperata Costituzione?
La nostra Costituzione, purtroppo, si interpreta. Quindi, importante è interpretare. Esempio, l’art. 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” significa rimuovere il debito pubblico, quindi “tagliare in modo lineare”, anche, scuola e sanità! Questione di interpretazione! Vero? Anzi, più interpretazioni se ne fanno e meglio è, perché è come dire non averne alcuna… (è un teorema matematico).
E perché la scuola dovrebbe interessare? Perché fare del “taglio lineare sulla scuola” una questione, addirittura, “costituzionale”? A parte gli stipendi, in essa non ci sono capitali per i quali sbranarsi, c’è solo il “peso” di un servizio “molto volontario” che serve a “dare tempo”, a “prendere tempo”, per poi far numero con i NEET (“Not Employed, not in Education, not in Training”).
Qualche soldo, poi, c’è (e qui la dimostrazione di cui sopra) nei “progetti formativi” e, allora, ecco il proliferare di società di formazione, agenzie formative, associazioni, consorzi che per poter spendere il denaro pubblico da fonti pubbliche non scolastiche (FSE, FESR, FEI, 6/2000 etc.) hanno bisogno delle scuole, alle quali dare nulla per far fare molto (è l’unico modo in cui questo privato può fare reddito). Si scatena la caccia alla scuola “disponibile” (per loro, ovviamente, virtuosa), meglio alla “rete di scuole”, bombardando la buca della posta con migliaia di iniziative ad “alto valore etico e profondo valore culturale”. La scuola pubblica diventa, così, la “porta di accesso” del privato attraverso la quale lucrare sulle povere membra dilaniate delle istituzioni scolastiche. E come in tutte le situazioni di enorme povertà, qualche scuola accetta sperando di poter salvaguardare l’esistenza di quella soglia oltre la quale c’è l’indigenza.
Insomma, oggi, la scuola non interessa nessuno, a nessuno interessa investire nella scuola e neppure alle famiglie interessano le sue criticità, tant’è che il contributo volontario si traduce in un problema di principio, un abuso, magari un “divieto”. Ai cosiddetti “stakeholder” (soggetti interessati del territorio) non interessa se la scuola soffre. Eppure, tutti (questi fantastici stakeholder) pretendono dalla scuola: un servizio di qualità, il successo formativo, la disponibilità alle iniziative degli Enti locali (senza fondi), la collaborazione con le Aziende (che non investono a fronte del taglio integrale dei fondi per l’alternanza scuola lavoro), i protocolli con le Università (basti dare uno sguardo ai TFA e l’abbandono che hanno avuto dagli Uffici scolastici regionali). E se ti rifiuti, sei una scuola di serie B, una scuola “non virtuosa”.
È puro delirio. Mentre la situazione socio economica e politica diventa insostenibile al punto di indurre le componenti scolastiche di tutto il territorio nazionale ad autogestire, occupare, rifiutare progetti, recedere dalle funzioni e dagli incarichi, mentre Presidi e Professori sono fuori dalle loro scuole chiuse con catene improvvisate da studenti, anche loro, “al limite”, mentre molte altre scuole reagiscono facendo cultura con iniziative di grande valore comunicativo, educativo e formativo, creando sinergie con protagonisti del territorio e quindi con tutti quei veri, pochi, stakeholder, cioè quelli veramente interessati ad investire nella scuola pubblica, ebbene, mentre accade tutto questo, come se nulla stesse minando le fondamenta della scuola pubblica, come se nulla stesse accadendo, come se nulla di tutto ciò li riguardasse, i nostri telefoni e le nostre buche della posta continuano ad essere intasati da chi (per ragioni privatistiche o ragioni politiche) ti chiede questo o quest’altro…
Indifferenza! Esattamente come quella di chi vede crollare a terra un passante per un malore e tira via perché l’accaduto non lo riguarda o come se allo stesso passante a terra sofferente si chiedesse la disponibilità a visitare il “Salone della Giustizia”, il Job Orienta di Verona, il convegno di Alma Diploma, la formazione dell’ANSAS sul “Cannocchiale di Galileo” e quant’altro. Poi… ma proprio al Salone della Giustizia! La beffa al grido del “tiremm innanzi”!
Qui dovremmo aprire una delicata discussione sull’art. 9 della Costituzione, la sua originaria formulazione della Costituente, e l’attuale reale contestualizzazione dei suoi contenuti. Quindi solo un timido accenno. Come si fa a pensare, anche con tutta la fantasia di questo mondo, che la “cultura della scuola” non abbia nulla da condividere con la “cultura dell’art. 9”? Agli Stati Generali della Cultura, la scuola era la grande assente. Profumo era lì come rappresentante della ricerca (leggi art. 9), non come rappresentante della scuola (con tutto il rispetto per il Ministro). Ovviamente, cosa ci azzecca (alla Totò) la “diffusione” (peggio, la trasmissione) del sapere e della cultura con il sapere e la cultura (vere)? La cultura vera, quella di rango superiore, è quella della ricerca (non didattica…), è quella del patrimonio artistico. Non era invitata la scuola perché questa cultura non era di sua competenza, alla portata cioè della sua “specifica espressione culturale”. Al tavolo degli invitati degli Stati Generali della Cultura c’era di tutto, ma la scuola no! Ad esempio, c’era il FAI, che ha bisogno di fondi, la cui Primavera del FAI, com’è a tutti noto, funziona grazie al volontariato delle scuole (vedi più sopra…). Ovviamente la scuola “diffonde la cultura”, non è un’impresa culturale, non è cultura. Oh!!! Che luce sinistra da questa miseria umana… E vogliamo parlare ancora di scuola? Ma veramente crediamo, oggi, che l’art. 9 non abbia nulla a che fare con l’art. 33 della Costituzione? Se così fosse, allora il problema sarebbe tanto grave da non avere più una cura possibile. E noi che si lavora insieme con l’Università per la diagnosi dei manufatti artistici o si lavora sulla cura dei monumenti con protocolli per le analisi chimiche conservative. A che pro?
Non si può pensare di cambiare la scuola con questi “modi d’essere”, con queste persone dalla “forma mentis” tarata su altre priorità (come la finanza, la politica del voto o delle primarie, il partito, le proprie “relazioni di sistema”…). Se la scuola non interessa, allora si abbia il coraggio di chiuderla! Se invece interessa, allora, che la scuola sia trasformata radicalmente, per esempio, eliminando (rottamando?) quella struttura burocratica fatta di uomini e donne che della scuola non hanno visto assolutamente nulla e che hanno avuto accesso ai loro ruoli con una laurea – nel caso più felice – in giurisprudenza e un concorso pubblico. Radicale? Sì, ma l’Australia docet! Si può fare. Con contenuti e modalità infinite, ma si può fare!
Infine, la scuola “sente” di essere sola! Constata tutti i giorni che, in fondo alla catena istituzionale, essa è “autonoma nella sua più pura solitudine”. Dov’è lo Stato? Autonomia è sinonimo di abbandono? Nonostante la geniale intuizione di Luigi Berlinguer, nel lontano 1998, e l’eccellente intervento di Stefano Stefanel – vedi i loro recenti articoli su Education 2.0 – credo sia una riflessione urgente e di alta priorità politica quella di risolvere i paradossi della scuola italiana che, come spero di aver mostrato, non si risolvono più esclusivamente nella sola “autonomia scolastica” tra volontariato e privatizzazione. Urge un nuovo paradigma politico e tecnico che ricostruisca la scuola dalle sue fondamenta, assumendo come punto di partenza l’attuale stato sociale, configurato su esigenze e bisogni profondamente rivoluzionate rispetto al passato (basti pensare alle tecnologie e ai nativi digitali), le cui domande sono difficilmente risolvibili con piccoli aggiustamenti di comodo (acquisto di tablet e obbligo all’uso di una piattaforma o di un registro elettronico).
[1] Ricordo che il “residuo fisso”, nel bilancio di una scuola, è quella somma dichiarata dallo Stato come “certa” nella cassa (quindi certo il suo finanziamento) ma poi non accreditata. Gli Esami di Stato (e diverse altre spese…) sono stati sostenuti dalle scuole, prelevando da altre voci, per evitare conflitti e contenziosi, non ricevendo, poi, a posteriori, molte delle somme “obbligate”.
Arturo Marcello Allega