Dal dire al fare nella scuola italiana…
Alcune considerazioni ispirate dalle “competenze per il 21° secolo”.
Ho ricevuto la scorsa settimana dall’OCSE CERI la richiesta di compilare un questionario che si propone di capire in che misura i diversi sistemi scolastici hanno previsto di introdurre nella scuola di base quelle che vengono chiamate “21st Century skills”, cioè le competenze di base necessarie a vivere in modo consapevole e critico nel secolo in corso (creatività, pensiero critico, problem solving, capacità decisionale, comunicazione, alfabetizzazione informatica e così via). Nell’accingermi a soddisfare questa richiesta apparentemente semplice, mi sono imbattuta in un ennesimo esempio dell’immobilismo decisionale della scuola italiana.
Prendiamo la domanda 6, che chiede di illustrare, se ci sono, i documenti che prevedono l’introduzione di queste competenze nella scuola dell’obbligo, che in Italia copre tre segmenti distinti: la scuola primaria, la scuola secondaria di primo grado e la scuola secondaria di secondo grado nei suoi tre canali di licei, istruzione tecnica e istruzione professionale. La riforma del 10 dicembre 1997 che affrontava per prima questi temi è rimasta inattuata per mancanza di regolamenti e soppressa dalla L. 53 del marzo 2003, che, a sua volta, è stata resa operativa solo per la parte riguardante la scuola dell’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado, per cui posso finalmente rispondere. Errore! Le “nuove indicazioni per il curricolo”, emanate nell’agosto del 2007 per sostituire le precedenti indicazioni del febbraio 2004, avevano durata biennale, per cui “scadono” come una confezione di mozzarelle, e al momento non mi risulta che siano state rinnovate o sostituite. Con il nuovo anno scolastico le indicazioni che contengono sulle competenze da acquisire sono perciò da considerare non vincolanti.
Al biennio la parte della L. 53 riguardante la secondaria è stata sospesa nel gennaio del 2007, e solo recentemente sono stati approvati dal Consiglio dei ministri in prima lettura i regolamenti per la riforma degli istituti tecnici e professionali (maggio 2009) e dei licei (giugno 2009): diventeranno operativi con l’approvazione definitiva. Anche in questo caso, quindi, le indicazioni non sono, per il momento, vincolanti. Spiegarlo ai colleghi stranieri non comporta solo difficoltà di traduzione…
Posto che tutti questi documenti contengono affermazioni generali sulla necessità di adeguare la preparazione scolastica alle sfide del futuro (le indicazioni per la secondaria di primo grado dicono ad esempio che essa “organizza e accresce, anche attraverso l’alfabetizzazione e l’approfondimento nelle tecnologie informatiche, le conoscenze e le abilità, anche in relazione alla tradizione culturale e all’evoluzione sociale, culturale e scientifica ella realtà contemporanea”), la loro elaborazione ha preso avvio nel XX secolo, e non è ancora stata completata ben addentro al XXI, offrendo un esempio spettacolare della pratica di un rapido adattamento ai ritmi della trasformazione.
L’accordo, per dirla con le parole di un ricercatore di Tokyo, sul fatto che “abbiamo bisogno di cittadini capaci di comunicare, risolvere problemi, usare i computer, sviluppare pensiero critico, innovare e adattarsi” non riesce a diventare operativo. Anche là dove la struttura burocratica è attiva, la decisionalità politica latita: nel caso la Commissione europea ha lanciato nella seconda metà del 2007 una consultazione sulle scuole del XXI secolo, in cui la Direzione degli Scambi culturali tanto si attivò che nel Rapporto globale del giugno 2008 il nostro Paese risulta fra i più attivi, con risultati utili ai fini della stesura della Raccomandazione della CE del 3/7/2008 “Migliorare le competenze per il XXI secolo: un ordine del giorno per la cooperazione europea in materia scolastica”. Conseguenze operative: non percepibili.
Ammetto che ho un po’ calcato la mano sugli aspetti paradossali di questa “never ending reform”, ma essa sottolinea, ce ne fosse bisogno, che i tempi dell’innovazione educativa stentano a conciliarsi con le esigenze della decisione politica, e che le priorità dell’una collidono con quelle dell’altra: ho già citato in altre occasioni la cinica affermazione di un ministro canadese per cui la prima priorità per un politico è essere eletto, e la seconda essere rieletto, e tutto il resto passa in secondo piano. In mancanza di un accordo per il bene comune, la preoccupazione per la centralità dell’istruzione resterà puramente nominale.
Luisa Ribolzi