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Crisi e ricerca scientifica: bisogna invertire la rotta, e subito

Pubblicato il: 17/03/2014 14:13:34 -


Il numero di giovani ricercatori italiani che emigrano è in continua crescita; giovani ben formati in Italia che poi vengono abbandonati a se stessi a causa di una politica economica e accademica miope. I dati parlano chiaro: c’è bisogno di una svolta, decisa e subitanea.
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È soltanto di qualche tempo fa la denuncia apparsa sul “Sole 24 Ore” rispetto alla perdita di competitività del settore ricerca in Italia e in Europa negli ultimi anni.
Sebbene il tema sembri ai più scontato, data la denuncia dello stesso operata a più riprese dai mass media, vale la pena di operare su di esso un ulteriore approfondimento.

Certamente le politiche di austerity non hanno favorito piani d’investimento nella ricerca tali da poter creare un’inversione di rotta. Tale tendenza è stata di segno opposto a quella emersa nelle grandi potenze economiche extraeuropee.
Gli Stati Uniti, sotto la guida di Obama, hanno finalmente rotto la tradizionale equazione di cui sopra. E hanno dimostrato che per battere la crisi si deve investire nella ricerca.
Stessa politica è stata adottata dalla Cina, che aggiunge questo investimento alla sua crescita in controtendenza, che ogni anno di più la avvicina al primato economico mondiale.
Medesima esperienza si è avuta per il Giappone e per le tigri asiatiche, con investimenti massicci nel settore della ricerca.
In Europa rimane il Regno Unito, soprattutto l’Inghilterra, che continua ad avvalersi dei suoi ponti dorati con India e Pakistan per incamerare manodopera altamente specializzata e inserirla nelle sue strutture di prestigio, al fine di garantire a queste ultime la continuità nella competitività.

L’Italia, invece, racconta tutta un’altra storia. E non solo in termini d’investimenti nella ricerca, ma anche, e soprattutto, nella valorizzazione dei propri ricercatori.
Magra consolazione è data dal fatto che tutto sommato la tendenza che viviamo in termini nazionali fa parte del più generale fenomeno di “brain drain” vissuto dall’Europa e dall’Asia negli ultimi 25 anni. In questo lasso di tempo, si pensi che più di 500.000 scienziati e programmatori russi hanno lasciato la madrepatria per arrivare in Occidente. Allo stesso modo molti Paesi del centro e dell’Est Europa hanno espresso preoccupazione per il fenomeno dell’immigrazione di qualità in particolare verso l’Irlanda e il Regno Unito.
Un fenomeno similare è accaduto in Polonia, a partire dalla sua entrata nell’Unione Europea; nel suo primo anno di membership circa 100.000 cittadini polacchi laureati sono emigrati in Inghilterra. L’esodo tende a continuare.

In Italia, tuttavia, questa tendenza è resa più dura dal fatto che il nostro Paese proviene da decenni di benessere e sembra avviarsi verso un declino che è quasi unico in Europa per proporzioni. Dei nostri cervelli all’estero, ormai la metà non è neanche più in Europa, preferendo per lo più gli Stati Uniti d’America, dove si è pagati decisamente meglio. Inoltre essi vengono per lo più impiegati nel management, dunque in quei posti dirigenziali che gli spetterebbero e che in patria continuano a esser loro negati. (Ministero dell’interno: dati Aire e OCSE: dati sul brain-drain).

I dati del Censis sottolineano, inoltre, che i 4,3 milioni di connazionali all’estero incarnano un’Italia sicuramente più brillante e apprezzata di quella racchiusa nello stivale. Anche perché chi si è trasferito all’estero enumera delle ottime ragioni per non ritornare:
– l’assenza di meritocrazia che impera in Italia (54,9%);
– il clientelismo e la bassa qualità delle classi dirigenti (44,1%);
– l’imbarbarimento culturale della gente (34,2%);
– la scarsa qualità dei servizi (28,2%);
– lo sperpero di denaro pubblico (27,4%).

Il 28,2% indica poi la scarsa attenzione ai giovani come il difetto più intollerabile del nostro Paese, e, infatti, ha meno di 35 anni il 54,1% dei 106.000 italiani che nel 2012 si sono trasferiti all’estero (il doppio dei 50.000 del 2002, con un aumento del 115%).
La “fuga” ha subito nel 2012 un’accelerazione +28,2%, rispetto al 2011.
A livello locale non va meglio.
Un dato che deve far riflettere è quello relativo agli investimenti in ricerca e sviluppo: in particolare, gli stanziamenti per la R&S delle Amministrazioni Centrali e delle Regioni e Province autonome (previsioni iniziali di spesa) sono stati pari a 8,8 miliardi di euro per il 2012, in calo rispetto al 2011, in cui erano stati di 9,2 miliardi di euro.

Eppure ogni indicatore, perfino quello non misurabile costituito dal buon senso, farebbe capire che un Paese come il nostro che regala dottori di ricerca et similia agli altri Paesi e versa in uno stato di recessione, sia in una contraddizione evidente.

C’è bisogno di una svolta. Decisa e subitanea.
E non può che venire dai governi del vecchio continente a cominciare dai suoi organi comunitari.
Le prossime elezioni europee devono vedere obbligatoriamente il tema della ricerca in agenda, e in un ruolo di primo piano.

Il momento è adesso e non c’è più tempo.
C’è bisogno di classi dirigenti che si pongano il concreto obiettivo d’implementare politiche basate su una prospettiva davvero lungimirante.

Per approfondire:
Il bureau – emigrazione e brain drain
ISTAT – La ricerca e sviluppo in Italia
AIRI – R&S Dati statistici
OECD – Research and Development Statistics (RDS)
Rapporto Censis: una società sciapa e scontenta Il futuro? I giovani, le donne e gli immigrati (Repubblica.it)
Rapporto Censis: Italia sfiancata dalla crisi, esodo di giovani all’estero

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Immagine in testata di pixabay (licenza free to share)

Damiano De Rosa

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