La crisi “morde” la scuola
Neppure il mondo della scuola è immune dalla crisi economica. Lo rivela l’analisi dei dati parziali sulle iscrizioni nella scuola secondaria di secondo grado, che indicano un segno molto preciso: calano gli iscritti ai licei e alle università, crescono gli iscritti ai tecnici e ai professionali. Perché anche sull’istruzione si può risparmiare…
Dopo anni di attesa (e spinta) nella direzione di vedere un incremento dell’offerta tecnica rispetto a quella liceale, il processo “finalmente” si avvera, con un coro generale di consensi talmente enfatici da trascurare una lettura attenta del processo. Non è un dato eclatante e neppure omogeneo sul territorio nazionale, ma certamente tale da configurarsi come tendenza di sistema. Tutto ciò non avviene per una maggiore efficacia delle azioni di orientamento nelle scuole, dove gli alunni continuano a essere dirottati, non orientati, verso la scuola secondaria superiore. Non avviene neppure in virtù dello sviluppo del processo di riordino dell’istruzione tecnica, processo ancora aperto e incredibilmente non sorretto da alcuna azione efficace di aggiornamento del personale.
La ragione del cambiamento di rotta nei comportamenti delle famiglie in questo inizio del 2012 è tutto nei caratteri delle durissima crisi economica che vive il Paese. Per settimane, e comprensibilmente se vogliamo, siamo rimasti appesi alle notizie quotidiane sugli indici dello spread; ma intanto la crisi iniziava a modificare i comportamenti delle persone: nei consumi, nelle scelte di vita, nelle prospettive. E anche la scuola ha subìto il colpo: d’un tratto, la sguardo delle famiglie si è “fatto a breve”, e l’immediatezza consiglia oggi un percorso corto, con diploma magari spendibile sul mercato del lavoro. L’Università? Troppo lontana e costosa, sempre più costosa, per essere messa in conto con un anticipo di cinque anni. Dopo il diploma, si vedrà. E infatti il calo delle iscrizioni all’Università è drammatico (solo poco più del 60% dei diplomati), anche in ragione delle tante difficoltà che incontrano i giovani laureati in cerca di una occupazione qualificata.
E così, all’insegna di questo sguardo a breve, l’istruzione tecnica avanza a scapito dei licei. Forse ciò sarebbe accaduto, in termini decisamente più consistenti, anche per l’istruzione professionale se il processo di riordino istituzionale fosse stato portato a termine dalle Regioni. Così non è e il sistema è rimasto monco, territorialmente disomogeneo, privato persino, in non pochi contesti, delle opportunità di qualifica intermedia che pure sono state riferimento per una fascia non trascurabile di giovani in difficoltà.
Che la crisi sia la ragione di questi processi è fuori discussione. L’Istat pochi giorni fa ha comunicato al Ministero un inquietante aumento degli abbandoni nella scuola. Il fenomeno sembrava aver trovato nel 2010 un recupero rispetto al 2004 ma la crisi in corso ha riaperto il processo. Non solo, se il fenomeno colpisce più radicalmente il Sud, lo stesso inizia a prendere forma anche nelle periferie delle grandi città del Paese, accompagnandosi alle nuove realtà di povertà ed emarginazione.
Viene dunque a calare il valore e persino la percezione sociale del valore dell’esperienza scolastica e questo, in assoluto, è il dato più inquietante.
Un dato che non si può spiegare solo con una considerazione di ordine economico, che pure pesa. Non dimentichiamoci che le scelte delle famiglie sono avvenute entro il febbraio scorso, quando cioè la ricaduta dei provvedimenti del governo sui redditi familiari era ancora largamente assente. Ha agito dunque in maniera rilevante una previsione pessimistica del futuro che ha spinto le famiglie a scelte sul breve periodo, improntate a una economia di costo e a una supposta gerarchia di valori. Il fatto è che, oltre che costare, l’istruzione e la formazione non sono né percepiti né presentati come valori fondativi della cittadinanza. Con meno scuola e formazione non solo saremo più ignoranti, meno “competitivi”, come vogliono i tifosi del liberismo: saremo anche più fragili, più poveri, socialmente più divisi, ricacciati in un individualismo egoistico e rissoso.
Il Governo e il Ministro Profumo hanno colto il segnale e aperto un cantiere contro gli abbandoni nel Mezzogiorno; progetto lodevole che auspichiamo possa raggiungere esiti postivi. Ma ora il quadro si complica anche perché, se aumenta la popolazione scolastica dei tecnici/professionali, non bisogna dimenticare che proprio nei tecnici e professionali registriamo i tassi più alti di selezione e abbandono. Il rischio che un aumento di studenti trascini ulteriori incrementi degli abbandoni/selezione è molto alto e può essere scongiurato solo se, per tempo, verranno messe in atto misure serie e forti per contrastare sul campo la selezione e gli abbandoni in quei settori.
Con ciò, sia chiaro, non voglio difendere i licei in quanto tali. La riduzione degli iscritti potrebbe aprire in questo settore una salutare riflessione sulla necessità di innovazione che deve investire anche i licei a tutto tondo: nei curricoli, nella didattica, nella organizzazione del lavoro. Che essi siano usciti deboli dal cosiddetto riordino è fuori discussione; ma temo che il confronto tra le carte non dia il senso della misura delle difficoltà che sono presenti nel sistema di istruzione nel suo insieme e nella perdurante debolezza delle politiche sull’istruzione.
Ben venga un riequilibrio dell’offerta, all’insegna di una prevalenza dell’offerta tecnico-professionale; se ciò fosse l’esito di una nuova relazione tra politiche del lavoro e politiche della formazione, ne sarei lieto. Ma così non è, e purtroppo anche la trattativa in corso sulla riforma del mercato del lavoro lascia almeno per ora poche speranze. E sarei un po’ più guardingo anche culturalmente. Certo che la cultura umanistica non si identifica tout court con i licei; ma siamo convinti davvero che la campagna di enfatizzazione delle competenze, figlia di questa Europa monetarista, rappresenti davvero la svolta culturale che dovremmo realizzare?
Dario Missaglia