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Praticare l’integrazione scolastica

Pubblicato il: 18/05/2015 08:15:30 -


Stiamo assistendo ad una deriva assistenziale dell’integrazione. Questa è la sconfitta più brutale di una grande conquista raggiunta quaranta anni fa. L’integrazione è un processo, mai concluso e definito una volta per sempre.
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Il dibattito intorno ai processi di integrazione/inclusione (anche) degli alunni autistici nella scuola pubblica, sollecita una nuova riflessione. Non voglio qui parlare di autismo; posso solo dire che non ci sono risposte né automatiche né scontate di fronte a questo specifico problema, perché tale è, o meglio ben complesso è tutto quanto comporta l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap o con bisogni educativi speciali (BES) o con disturbi specifici di apprendimento.

Il nostro Paese, com’è noto, dal 1977 (L. 517) ha compiuto una scelta coraggiosa, difficile: da allora, bambini e adolescenti con handicap di diverso tipo, sono inseriti nella scuola pubblica. La scuola, dalla materna alla media, diventa scuola di tutti e di ciascuno, anche del bambino con handicap per il quale, onde favorire il processo d’integrazione, la stessa legge introduce nella scuola la figura dell’insegnante specializzato. La nuova situazione ha lasciato alle spalle una tradizione fondata esclusivamente sulla separatezza (il bambino con handicap e/o in difficoltà in apposite scuole speciali o classi differenziali) e – nel corso del tempo, attraverso la programmazione e messa in atto, in un clima collaborativo, di itinerari, strategie e metodologie didattiche “personalizzate” – l’effettiva integrazione di bambini in situazione di handicap ha smesso di essere un fatto “straordinario”, realizzando un incontestabile vantaggio dal punto di vista strumentale, cognitivo, relazionale, non solo per l’alunno con handicap ma anche per gli altri bambini, genericamente definiti “normali”.

Esperienze significative e qualificanti di integrazione scolastica e la professionalità di molti operatori scolastici hanno sollecitato i successivi interventi giuridici e amministrativi improntati a nuovi parametri di uguaglianza, e di democrazia: i principi costituzionali sono lo sfondo e il minino comune denominatore della scuola di base. Negli anni più recenti il processo ha investito la scuola secondaria superiore, evidenziando nuove criticità e complessità. Gli insegnanti di sostegno hanno costituito il presidio pratico di questo processo. Quando le politiche si sono fatte restrittive, Tar e Corte costituzionale hanno dovuto ricordare ai governanti che le economie non si possono fare sui diritti, in particolare sui diritti dei più deboli. Il nostro sistema dunque, anche nelle sue massime istituzioni di garanzia, conferma di avere fatto una scelta irreversibile.

Ma da un po’ di tempo ho la percezione che sul piano normativo – mentre si crede di stemperare la complessità del processo di integrazione anche con sfumature terminologiche per definire l’handicap – insieme ad un fiorire di acronimi per segnalare o richiamare l’attenzione sulle specificità e sulle diversità biologiche, fisiologiche, psicologiche e sociali degli alunni, si percorra la strada di una più o meno esplicita “medicalizzazione” di quelle specificità. Questo, a mio parere, è il limite della normativa relativa ai BES. Il rischio è che il disagio sociale, figlio delle disuguaglianze reali, diventi una malattia anziché un problema che sta di fronte alle istituzioni e alla politica; che l’intervento “medico” sia percepito a scuola come la nuova “risorsa” cui fare riferimento di fronte alla prima difficoltà di apprendimento di un alunno.

Questa sarebbe una vera e propria sconfitta di una scelta di civiltà fatta nel lontano ‘77. Dovremmo osservare con più attenzione i processi che seguono le buone norme e rilevare se la realtà dei comportamenti concreti va in altra direzione. Non si tratta di cattiva volontà o di pervicace chiusura all’innovazione. Tutte le organizzazioni “burocratiche” tendono a standardizzare comportamenti, a consolidare procedure e prassi, a “dribblare” le difficoltà. Succede talora di rilevare atteggiamenti di sciapa accettazione delle “diversità”, limitandosi ad un inserimento in presenza e spesso confinando l’alunno e il “suo” docente nei corridoi o in “aule attrezzate”, vanificando l’obiettivo della legge stessa. Se i laboratori sono spazi attrezzati in cui gli alunni possono, opportunamente guidati, fare specifiche esperienze non riproducibili in classe, realizzando così processi di integrazione, certamente sono utili, ma se diventano “aule H” (come ho visto in alcune scuole) in cui confinare l’alunno/a in attesa della fine della giornata, bisogna reagire e duramente.
Questa deformazione assistenziale dell’integrazione è la sconfitta più brutale di una grande conquista. Ma allora cosa deve fare concretamente la scuola?

Per approfondire prosegui la lettura

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Immagine in testata di Siracusa News

Patrizia Costanzo

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