Conversando con De Anna
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Quali sfide per l’Italia e il federalismo nella scuola? Vittorio Campione, esperto di sistemi educativi, parte dagli spunti offerti da Franco De Anna su Education 2.0 per continuare le riflessioni sull’organizzazione dell’istruzione e della formazione in Italia.
I recenti interventi di Franco De Anna aiutano a capire quanto sia rimasto bloccato il dibattito sulla scuola nel nostro Paese. De Anna ci obbliga ad abbandonare i terreni sicuri della polemica contingente e della critica alle scelte del governo e ci propone due piste diverse: la centralità del tema dell’organizzazione del lavoro nella scuola e l’abbandono della identificazione fra costi e spesa pubblica. E non è casuale che ciò avvenga all’interno di una riflessione che prende le mosse dall’attuazione della riforma del Titolo V in rapporto con l’introduzione del federalismo.
Una riorganizzazione del servizio di istruzione (e più ancora dell’intero sistema di istruzione e formazione) che non si misuri con il problema di come si affronta il tema dei costi, oltre all’investimento a valere sulla spesa pubblica, è infatti destinato a sancire (o a subire) una differenza definitiva e crescente fra le regioni. Analogamente, parlare del personale e del suo eventuale trasferimento alle regioni in termini di dimensione degli organici e non di diversa organizzazione del lavoro, significa rassegnarsi a una battaglia di retroguardia a difesa di un servizio che rinuncia a usare la leva della articolazione delle professionalità e della pluralità dell’offerta per conservare un modello statico basato sulla lezione frontale e la struttura della classe.
Opportunamente la discussione viene indirizzata sul come si può/deve attuare il Titolo V anziché proseguirla irresponsabilmente sul se attuarlo. E a questo proposito la scelta è quella (l’avevamo avanzata con Annamaria Poggi anche nel nostro “Sovranità, Decentramento, Regole”, pubblicato da Il Mulino nel 2009) della individuazione di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), esplicita traduzione in atti e misure dei fondamentali diritti costituzionali in materia di istruzione, che vengono messi, ognuno, alla base di matrici che indicano “chi fa cosa” e “come si fa a farlo”. In termini di poteri di decisione, di tempi, di atti necessari e derivati. Insomma, provando a verificare concretamente, prima del calcolo dei costi, QUALI prestazioni, CHI deve fornirle, in COSA consistono, QUANTO tempo richiedono e, specificatamente, QUALE soggetto istituzionale ne ha la responsabilità.
Mi sembra di poter dire che, rispetto a una discussione che sembra ancora inchiodata alla croce della opportunità di mettere in pratica una disposizione costituzionale che appare pericolosa in termini di tenuta del consenso (sic), De Anna suggerisca un altro approccio indicando che passare dalla spesa (pubblica) storica ai costi standard non vuol dire necessariamente aumentare la spesa pubblica, ma piuttosto far convergere risorse anche di provenienza privata per garantire l’elevamento dell’efficacia dell’azione formativa; allo stesso modo, garantire il soddisfacimento della domanda di istruzione e formazione non vuol dire più ore di lezione ma un’offerta differenziata fatta di lezioni ma anche di attività di studio, di ricerca, di rapporto con l’esterno e così via.
Il tema della differenza fra costi, investimenti e spesa, e del concorso di soggetti privati agli investimenti per una sostenibilità dei costi in presenza di una non elasticità della spesa pubblica, è strettamente collegato al tema del rapporto fra la scuola e la comunità, cioè alla ridefinizione del carattere pubblico del sistema di istruzione e formazione nel senso della restituzione a queste ultime del potere di organizzazione e gestione del servizio educativo per rispondere a esigenze e fabbisogni differenziati che la gestione statale non potrebbe mai soddisfare.
Definire i LEP (e i costi standard per soddisfarli) è il primo passo nella direzione di un trasferimento di risorse dallo Stato verso regioni e autonomie locali che possa mettere i territori al riparo di una politica economica centralistica che cristallizza la spesa storica.
Trasferire soldi (e personale) mediante la semplice ripartizione dei totali fra le diverse regioni è sbagliato. E non perché protegge meno il personale e condanna chi ha meno risorse a continuare ad averne poche. L’errore, grave, consiste nel fatto che non vi è alcuna ricerca e scelta condivisa delle priorità e degli indirizzi conseguenti e quindi diritti universali (primo fra tutti il diritto all’apprendimento per tutto l’arco della vita) e diritti acquisiti di alcuni finiscono con il confondersi.
Su tutto ciò il confronto è stato finora assai circoscritto, anche perché in molti erano (sono?) convinti che nulla accadrà e l’eterno gattopardo italiano vincerà ancora.
Penso viceversa che scuole e territori possono mettersi al lavoro per un approfondimento concreto che indichi contenuti e tempi per l’introduzione dei LEP e possano a partire da questo incalzare il legislatore e il governo che come un rentier continua a sottrarsi agli interventi che gli competono.
Vittorio Campione