La cattedra immobile
Una ennesima norma blocca le dotazioni organiche delle scuole pur in presenza di un incremento della popolazione scolastica, ma è possibile fermare le lancette dell’organico? La situazione è complessa ma un dato emerge su tutti: continuano a essere utilizzati gli stessi strumenti giuridici che hanno razionalizzato la spesa per l’istruzione in tempi di decremento scolastico.
Nelle ultime tre legislature è stata emanata, puntualmente per ogni anno scolastico, una norma di legge tesa a regolare l’organico nelle scuole.
Naturalmente le norme in questione erano quasi tutte inserite in disposizioni finanziarie per il contenimento e la riduzione della spesa pubblica, ma indubbiamente ha sempre destato curiosità se non vero e proprio sconcerto, il fatto che le regole con le quali si assegnano i docenti alle cattedre avessero bisogno di essere modificate in vista di ogni anno scolastico.
Che aveva di sbagliato e/o dispendioso la regola precedente, nata sotto la stessa spinta e con gli stessi obiettivi?
Spesso nulla, spesso le norme si somigliavano e il loro reiterato rinnovo quando non era una grida manzoniana, era un segnale d’allarme su una possibile, improvvida levitazione dell’organico delle scuole.
E allora vediamola l’ultima norma, quella che varrà “a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013” sempreché, puntualmente nel prossimo anno solare, una nuova non la modifichi oppure non la riproduca, come in uno specchio.
Sto parlando dell’art. 19 “Razionalizzazione della spesa relativa all’organizzazione scolastica” del D.L. 6 luglio 2011 convertito dalla legge 15 luglio 2011 n.111 che, apoditticamente, blocca le dotazioni organiche delle scuole, immobilizzando le cattedre: viene, infatti, stabilito che esse non debbano superare, nell’anno scolastico 2012-2013 e seguenti (?) la consistenza delle relative dotazioni organiche dei docenti e degli ATA determinata nel corrente a.s. 2011-2012. Con ciò viene assicurata una quota di economie di spesa per il bilancio dello Stato, già individuata da una precedente norma (il noto art. 64 della legge 2008/112).
La prima domanda sorge spontanea: è possibile fermare le lancette dell’organico? La risposta è duplice: quello dell’organico di diritto, sì, essendo una previsione sul fabbisogno utilizzata soprattutto per la mobilità e per le nomine del personale della scuola. Ma quello dell’organico di fatto, no, perché è la determinazione del reale fabbisogno di docenti: riscontrata all’inizio di ogni anno scolastico. Dei due, oltretutto, è questo secondo che configura la spesa effettiva, con l’aumento o la diminuzione dei contratti a tempo determinato, cioè del rapporto di lavoro dei precari.
Una norma di tale portata avrebbe un maggior senso se l’andamento della popolazione scolastica –che stabilisce, appunto, il fabbisogno – fosse stabile, se non addirittura in calo, ma così non è più: i sette milioni e mezzo di studenti, che hanno segnato il maggior punto di caduta, sono ormai un lontano ricordo e la popolazione scolastica ha ormai raggiunto la quota di otto milioni.
È pur vero che continuano a permanere aree di minore incremento demografico al Sud e nelle Isole e che in tali aree la norma blocca-organici può rappresentare un vantaggio rispetto alla precedente. Ma il quadro profilato da tale tipo di disposizioni permane, dunque, quello di una scuola impoverita sulla base di un non ancora raggiunto equilibrio tra sostenibilità finanziaria dell’intervento, qualità e quantità dell’offerta formativa e impiego di risorse umane con rapporto di lavoro stabilizzato.
Vere e proprie anomalie di sistema prodotte anche da quell’insufficiente quota di PIL destinato all’istruzione: la spesa per Scuola e Università nel nostro Paese è del 4,8% del PIL contro la media OCSE del 6,1%.
Anomalie che rischiano di aggravarsi con l’aumento del precariato sull’organico di fatto e la contrazione della stabilizzazione per il blocco dell’organico di diritto. Già oggi un docente su quattro è precario con una permanenza, soprattutto per alcuni insegnamenti, ormai fisiologica del fenomeno.
Tanto più i due organici, di diritto e di fatto, sono lontani, tanto meno l’organizzazione scolastica risulta agevole ed efficace. Le nuove ipotesi vanno, purtroppo, in questa direzione, non tenendo sufficiente conto del fatto che nell’ultimo decennio sono stati migliorati, con una significativa riduzione di spesa, i seguenti parametri:
• istituzioni scolastiche con una popolazione né carente né eccessiva,
• rapporto equilibrato alunni-classe,
• rapporto docente-alunni nella media OCSE,
scuola secondaria superiore che ha conosciuto innovazioni educative tendenti anche a limitare il surplus delle classi di concorso.
Continuare sulla strada percorsa in tempi di forte decremento scolastico, con gli stessi strumenti giuridici, significa anzitutto creare classi affollate e istituti pletorici senza più alcuna identità educativa.
Perché la crescita della popolazione scolastica è un bene da proteggere, come lo è stato la scolarizzazione di massa degli anni ‘60 e ‘70, come lo è la mobilità sociale che rischia di venire azzerata da una scuola non sufficientemente attrezzata a “rimuovere gli ostacoli” di costituzionale memoria, ma che tende inevitabilmente a confermare e a riprodurre le ineguaglianze.
Perché la crescita dei livelli di istruzione in Italia deve tornare ad essere una priorità delle politiche educative, fino ad oggi troppo appiattite sulle esigenze di riduzione degli investimenti nel settore. E così facendo si paga un prezzo troppo alto in termini, appunto, di disuguaglianze sociali.
Con la ricetta “più studenti, meno insegnanti, meno investimenti”, c’è un arretramento culturale complessivo della società che prima o poi ci presenterà un conto salato, all’insegna di “meno cultura meno sviluppo”.
Termino con l’auspicio che, nella prossima legislatura, vengano affrontate almeno tre questioni essenziali per la scuola, con nuovi strumenti giuridici rispetto agli attuali:
1. UNA POLITICA DEL PERSONALE EQUILIBRATA, cioè da un lato volta al riassorbimento del precariato e dall’altro al reclutamento dei giovani laureati (gli ultimi concorsi a cattedre sono del 2000). Il personale della scuola è circa un terzo del pubblico impiego in Italia, e come tutti gli altri dipendenti pubblici soffre di un eterno e amaro confronto con il privato: il confronto tra posto garantito e posto aleatorio. Se è vero che quanto a flessibilità in uscita la garanzia del posto pubblico è inossidabile, per quella in entrata c’è però il macigno della durata media (quindici anni) del precariato scolastico. E in un immediato futuro, la situazione migliorerà solo nel settore privato per la riforma del mercato del lavoro, che fornirà uno strumento nuovo: il contratto dominante potrebbe essere, infatti, quello a tempo indeterminato che inizia con l’apprendistato e offre vantaggi e correlativi svantaggi alle imprese per raggiungere il risultato della stabilizzazione dei dipendenti.
2. L’ECCESSIVA LUNGHEZZA DEL CICLO DI STUDI CHE ATTUALMENTE COMPRENDE LA SCUOLA PRIMARIA E LA SECONDARIA DI I GRADO: già nel febbraio 2000 la legge n. 30 del ministro Berlinguer ridusse di un anno tale percorso anche nella considerazione che un contesto educativo moderno consente maggiori dinamismi e anticipazioni rispetto al passato. Come un fiume carsico la legge, abrogata l’anno successivo, dovrebbe ritornare alla luce. E certo potrebbe essere anche uno strumento per ridurre e qualificare la spesa per l’istruzione.
3. L’INVESTIMENTO PRIVATO NELL’ISTRUZIONE PUBBLICA: pubblico, privato e no-profit potrebbero convivere nel settore educativo in maniera nuova e ad un più alto livello di qualità e di numero di servizi, proprio in questa fase in cui l’offerta scolastica si è notevolmente ridotta anche sul piano quantitativo, soprattutto al Sud.
L’altra direzione, certo non auspicabile, è quella di un’ennesima legge sull’organico nelle scuole, che rispecchi, deformandola, la realtà educativa nelle diverse aree del Paese.
Giuseppe Fiori