Home » Politiche educative » Barriere e distanze per il diritto all'Istruzione

Barriere e distanze per il diritto all’Istruzione

Pubblicato il: 26/06/2024 03:36:59 - e


Print Friendly, PDF & Email
image_pdfimage_print

[Mauro] Occupandomi ormai da molti anni di Istituzioni che in modi e contesti diversi regolano il tempo e la quotidianità delle persone che ospitano, trattengono o detengono, mi misuro frequentemente con il rischio della “totalità”: dell’organizzazione del tempo, delle forme di regolazione del vivere, delle relazioni. La connotazione totalizzante delle Istituzioni determina sempre separatezza, alterità rispetto al fluire delle relazioni sociali, diminuzione della espressione autonoma delle persone così organizzate. Determina l’accentuarsi di un modello infantilizzante proposto – e implicitamente imposto – anche a persone adulte.

Finora ho sempre riscontrato grande distanza tra questi mondi di organizzazione totale e di sostanziale privazione della libertà di cui mi occupo e il mondo dell’istruzione e della formazione in cui in anni recenti può sembrare affermarsi il paradigma opposto: quello della difficoltà a riconoscere il senso organizzativo dei percorsi che per essi vengono delineati dall’attività legislativa e amministrativa. Eppure dietro tale apparente differenza riecheggia ormai sempre più la totalità anche in questi diversi mondi: l’apparente libertà di scelta e l’altrettanto apparente affidamento all’orientamento quali criteri di definizione celano invece un’implicita impostazione che non premia l’effettiva responsabilità dei propri percorsi perché ha implicitamente un’idea totalizzante – veramente – dei modelli culturali verso cui far tendere i percorsi stessi.

La prima domanda, quindi, che ti pongo è quanto il contesto attuale potenzi la capacità individuale di essere costruttore di un proprio percorso e quanto offra la possibilità strumentale di realizzare tale costruzione.

 

[Vittoria] La relazione educativa corre questo rischio di totalità, soprattutto se leggiamo con attenzione alcuni contesti apparentemente connotati da positiva comprensione, ma intrinsecamente omologanti. Perché in fondo la richiesta che viene posta alle persone è di auto-osservarsi, ma è formulata anche laddove non c’è alcuna prospettiva che dia senso a tale auto-osservazione. Per uscirne la via non è certamente quella del ‘correggere’ i comportamenti, con il connesso rischio di chiedere adesione acritica a modelli predefiniti, bensì quella del trovare valori e strumenti personali adatti a sostenere una ripartenza.

Parlo di ripartenza, rispetto a un qualsiasi fallimento, perché la responsabilità di un giovane rispetto a sé stesso è un valore intrinsecamente positivo volto alla determinazione di una prospettiva del proprio futuro e su questa occorre puntare anche nei contesti difficili. Questo, visto da me insegnante, mi ha portato ad diffidare delle forme di maternage (troppo comprensiva), che spesso sono praticate nella relazione educativa a scuola, e al contempo delle forme di una disponibilità a giustificare, accettare tutto, non in una relazione tra pari, bensì all’interno di una relazione gerarchica, comunque espressione di un potere, che proviene dall’alto – cioè dal docente. Tutto ciò non permette la  liberazione di potenzialità autonome, direi emancipativo, che poi per me, donna docente, (quando ho scelto e iniziato questo lavoro erano i primi anni ’60 del secolo scorso), corrispondeva anche a una personale disposizione/necessità impellente.

Bene, questo pericolo di una relazione sbilanciata, comprensiva, più accudiente che rispettosa del soggetto, che si deve confrontare con sé stesso e con le difficoltà di una realtà spesso non accogliente, è spesso presente nel paradigma dell’istruzione dove la  relazione centrata sull’affidamento dello studente all’insegnante è implicitamente negativa, direi castrante per il/la giovane. È, come tu dicevi, una forma implicita di “totalità” nel senso di imporre modelli sociali predefiniti e che riducono  responsabilità del singolo nella fase cruciale della sua costruzione identitaria.

Questo è un rischio, che vedo sistematico e che di fatto aumenta le difficoltà dei/ delle giovani, anche se apparentemente sembra aiutarli/le. Nei giovani vedo questo devastante rischio (devastante dal punto di vista pedagogico) di essere collocati a vivere in una realtà non decifrabile e nello stesso tempo essere destinati a un compito di falsa costruzione di sé: tutto ciò invece di aiutarli/e a crescere, ne aumenta difficoltà, ansia paura.

 

[Mauro] Il tema che emerge è quello della discrasia tra richiesta di autodeterminazione e imposizione di modelli. Questa distanza è sempre più accentuata nei luoghi della difficoltà sociale perché in essi – indipendentemente dai motivi per cui tale difficoltà si presenti – c’è una dimensione doppia, che però finisce per confluire in uno stesso schema paradigmatico. C’è la separatezza: lo stesso mondo della scuola è spesso noto solo nel contesto di chi vi lavora o di chi ne fruisce, e ciò è evidente quando la stampa se ne occupa e soprattutto la dimensione educativa e formativa del mondo della scuola in tali contesti difficili è implicitamente separata dalla consuetudine sociale diffusa. E c’è anche l’esclusione, cioè la riproposizione di una eterotopia escludente: separatezza ed esclusione non sono sinonimi, perché la prima propone un sistema interno di regolazione e di logica che a volte ha anche una funzione mentre la seconda indica un distanziamento mentale che va al di là di quello effettivo, che tali istituzioni hanno sempre più, dal contesto sociale. Il rischio della scuola distanziata lo vedo in varie scelte, per esempio nel diminuito riconoscimento valoriale del contesto di conoscenze che essa deve costruire.

Al suono della campanella dalla scuola si esce, ma mi chiedo se ne esca realmente, considerando il modello che la scuola presenta, o se invece rimanga semplicemente racchiuso nella sua distanza dal contesto esterno?

 

[Vittoria] Mi ha fatto molto riflettere ultimamente il tuo richiamo alla continuità/ contraddizione tra utopia e eterotopia come rappresentazione concreta di spazi. Una rappresentazione che, per un verso, ha un elevato grado di realtà rispetto a luoghi reali e, dall’altro, spesso, ne rovescia il senso: come se lo stesso oggetto riesca ad avere – e di fatto lo ha – una sorta di analogia diretta e nello stesso tempo rovesciata di ciò che rappresenta. Penso alla trattazione delle varie forme che, soprattutto nella cultura artistica/urbanistica europea, acquistano le cinte murarie di città, castelli ecc. nel corso dei secoli tra costruzioni, distruzioni, demolizioni, valorizzazioni estetiche, godimento artistico/paesaggistico ecc.

Questo gioco va avanti fino al momento in cui l’intervento artistico si rivela capace di mutare (penso alla cinta muraria aureliana di Roma): quegli oggetti si trasformarono a Roma, per opera soprattutto del grande Christo Yavacher capovolsero il senso della land art da contemplazione di oggetti di un sereno godimento “statico”, alle inquietanti impacchettature che, nel mezzo di piazze, strade, ambienti apparvero  capaci di svelarne la/le irrealtà.

“Sono luoghi effettivi, dei luoghi che sono predisposti nella logica istitutiva stessa della società, come specie di contro-spazi, specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi, che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”. Cito un po’ a mente dal testo “Des Espace Autres”.[1]

 

[Mauro] Interessante vedere come si connetta la riflessione sui diversi spazi sociali. Siamo partiti dal rischio della “totalità” per giungere all’altro rischio, quello di una estraneità che non trovi più strumenti per far dialogare chi è dentro tali strutture e tantomeno stabilire un dialogo tra questi e chi è al di là del muro – reale o immaginario – che le separa dal resto. Il rischio di questa separatezza, divenuta esclusione, oggi si proietta nel mondo della scuola se vediamo che non riesce a soddisfare i bisogni di chi in essa deve costruire una propria adultità, né a rispondere alle richieste, molteplici e scoordinate, che da di qua del muro vengono poste al suo interno. Eppure spetta a chi ha a cuore la sua centralità porsi come disvelatore di una connessione e anche un po’ come artista che, impacchettando, renda leggibile, concreto e innocuo quel muro, che separa. Come esaminare anche con crudezza questo spazio sociale essenziale per farlo evolvere?

 

[Vittoria] L’istituzione scolastica nel mondo di oggi non parla più agli studenti; il linguaggio di bellezza e armonia, che la sua proposta culturale/formativa pretende ancora di contenere, diviene insignificante per il/la giovane cui si rivolge. Anzi, mi sembra che sia proprio questa proposta, che, come le belle mura antiche delle fortezze medievali e successive delimitavano, con la loro stessa presenza, e davano concretezza al non spazio, terribilmente chiuso in cui per secoli hanno ristretto e continuano a restringere le persone detenute, a rappresentare una irrealtà vuota, incomprensibile per il/la giovane. L’utopia contenuta nella proposta scolastica non rappresenta più uno spazio capace di accogliere un agire responsabile ed efficace del giovane, che si consegna al futuro, ma disegna invece uno spazio di vuoto, di assenza di senso, assolutamente incapace di interagire con una generazione sempre più disorientata, spaventata da questa assenza di senso, in cui si trova immersa e poco rispettata.

Da questo punto di vista è paradigmatico il modo con cui l’istituzione reagisce a questa situazione, direi, perché si preferisce contenere o cercare di proteggere, piuttosto che rispettosamente ascoltare, guidare, indirizzare. Penso soprattutto a quanto sta accadendo da noi: da un lato il rafforzamento di un messaggio valoriale e meritocratico, capace solo di provocare reazione, sconcerto, incertezza, e dall’altro una pericolosa interpretazione medico/curativa del disagio, che, con occhio benevolo, ma per questo non meno pericoloso, si affanna a classificare/catalogare in una prospettiva medicale un disagio esistenziale prodotta da società capaci soprattutto di escludere. Gli avvolgimenti dei muri delle prigioni, si determinano sia come fatto “reale”, che come fatto di una utopia rovesciata, perché nello stesso tempo drammaticamente reale e irreale: il muro diventa il vuoto, che sgomenta.

 

[Mauro] Nulla però da rimpiangere nel sistema scolastico della nostra formazione, se non la capacità di quelle mura di essere meno alte e meno inutili. Oggi sembra affidato al loro valore simbolico la loro persistenza. Forse alcune cose da rimpiangere risiedono nel desiderio, che sembra essersi perso, della volontà di trasformazione e della capacità di considerare in continuità ciò che avviene al loro interno con ciò che è fuori. Lo stesso problema di altre Istituzioni che tornano a parcellizzare, dividere comportamenti, attitudini, quasi rimpiangendo differenziazioni, che non sembrano più lette per il loro valore negativo.

 

[Vittoria] Ho paura di essere fraintesa, non sono affatto nostalgica dei bei …temporis acti, ma cerco di trovare una qualche strada sensata per una proposta di educazione nella realtà attuale, che possa sostenere processi di crescita significativi.

 In questo percorso ho cercato di capire ed imparare dalle tue relazioni, in quanto garante delle persone private della libertà, perché vi ho trovato una “sapiente” manipolazione/uso di strumenti culturali solidi e seri, e nello stesso tempo una collocazione corretta tra educazione a guardare la realtà e sostegno a orientare prospettive e aspettative di un soggetto in crescita in relazione a una organizzazione socio-istituzionale concreta, quale è quella che il “diritto in azione” – lo chiamerei così – si assume, come dato oggettivo: il compito/la responsabilità di delimitare spazi e contenuti ricchi di valenze, ma soprattutto di potenzialità socialmente rilevanti. Quando mi sforzo di tradurre quello che via via trovo nei tuoi Rapporti e nelle tue riflessioni è sempre questa azione, che chiamerei di un work in progress, da maneggiare attraverso aggiustamenti continui, ma solidamente radicato in realtà che si giustificano in precisi contesti istituzionali.

 

[Mauro] Tu hai sempre colto, anche in precedenti interviste dopo le mie annuali “Presentazioni al Parlamento” della Relazione annuale, il segno che io ho cercato di dare al Garante nazionale come Istituzione dialogante con gli altri ambiti del sociale. Al contempo, come una Istituzione disvelatrice dei problemi degli altri “luoghi” di costruzione della consapevolezza sociale. Perché i luoghi del mio sguardo sono quelli dove si è giunti spesso per un fallimento di quegli altri luoghi, esterni, che non hanno funzionato nel ricomporre conflittualità e difficoltà, nel sanare marginalità. Lo sguardo che io richiedo è quello dell’occhio non assuefatto, dell’occhio che sa ancora indignarsi, dell’occhio che non si sottrae alla responsabilità. Pensi sia possibile mantenere questo sguardo – o risvegliarlo – nel panorama dell’istruzione e della formazione?

 

Vittoria La prospettiva che i tuoi Rapporti, negli anni, hanno consolidato è un suggerimento a guardare la realtà dal punto di vista imposto dalla crudezza determinata da limiti socialmente e culturalmente definiti, ma collocati in un ordine razionalmente costruito attraverso il diritto e le modalità attraverso cui leggi, costituzioni ecc. lo interpretano e lo rappresentano.

Questa è una proposta pedagogicamente forte, che si può attuare solo attraverso relazioni costruite sull’attenzione e il rispetto. Mi rendo conto che rischio di banalizzare discorsi molto seri, ma credo che oggi sia fondamentale centrare il messaggio educativo sul/sui significato/i dei diritti tradotti in costituzioni, norme ecc. come punto di partenza per un percorso che aiuti il/la giovane a trovare una propria strada, scegliendo quanto la cultura, anche attraverso i linguaggi della scuola, è in grado di offrire. Mi fermo qui ma faccio solo questa osservazione.

Questo anno il  “Global Report on Adult Learning Education GRALE (5)” presenta un tema fondamentale. Il contesto è dato dal mondo globale e dalle migrazioni, assunti come cifre interpretative di azioni significative in senso orientante: la necessità di estendere il concetto dei basic skills (tradizionalmente, Literacy e Numeracy) alla educazione alla cittadinanza. La sfida cui si trovano oggi le società è di dar vita a “stati/ comunità nazione”, capaci di incorporare le diversità dei cittadini, comprendendo in queste anche l’incontro tra generazioni, al fine di stabilire e condividere valori, ideali, obiettivi riconoscibili come diritti di tutti e di ciascuno.

 

[Mauro] Cogli il punto e apri un fronte che indica che c’è molto da fare. Ma indica anche che quel muro di separazione va tolto dalle nostre menti, perché le eterotopie ridivengano utopie.

 

 

[1]M. Foucault, Of other spaces, il testo pubblicato dal giornale francese “Architecture /Mouvement/ Continuité” nel 1984 ha per base una conferenza tenuta da Michel Foucault nel marzo 1967. Non fa parte del corpus ufficiale della sua opera, tuttavia il manoscritto è stato reso pubblico per una mostra a Berlino poco prima della morte di Michel Foucault. Tradotto in italiano con il titolo Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, è stato pubblicato da Cronopio nel 2004.

Vittoria Gallina, Mauro Palma

93 recommended

Rispondi

0 notes
254 views
bookmark icon

Rispondi