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Autonomia differenziata, la legge che non vogliamo

Pubblicato il: 11/09/2024 06:30:24 -


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La garanzia, di rango costituzionale, di un’equa distribuzione su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) è richiamata dalla nuova legge n. 86, che prevede, all’art. 3,  appositi decreti legislativi per l’individuazione dei LEP, con una procedura complessa, le cui difficoltà risiedono non solo negli aspetti normativi, ma essenzialmente in quelli finanziari .

Dopo quasi un quarto di secolo la recente contestata legge del 26 giugno 2024 n. 86, sull’attuazione dell’autonomia differenziata, ha fatto appena a tempo ad apparire sulla Gazzetta Ufficiale che è iniziata una imponente raccolta firme per la sua  abrogazione referendaria.

Il Titolo V della Costituzione

Per esaminare la controversa questione occorre, infatti, risalire alla legge costituzionale n.3 del 2001 di riforma del Titolo V della Costituzione che, all’art. 117, ha configurato un nuovo quadro delle potestà legislative dello Stato e delle Regioni .

Una norma di quella legge costituzionale non ha trovato finora attuazione, si tratta dell’art. 116 che prevede di attribuire alle Regioni a statuto ordinario interessate “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” complessivamente in 23 materie, tra cui l’istruzione. Tale disposizione nasce, con qualche ambiguità, come forma di autonomia differenziata, “minore” rispetto a quella delle cinque Regioni a statuto speciale e non sembra prefigurare l’integrale attribuzione delle competenze legislative ed amministrative in tutte le materie indicate. Prevede un ampliamento di autonomia, da richiedere specificatamente in relazione al contesto sociale ed economico di una data Regione, venendo a creare il c.d. regionalismo asimmetrico. Ma l’asimmetria sarebbe tale e talmente profonda da costituire una vera e propria faglia normativa sul territorio nazionale.

Una questione di fondo che si agita da molti anni in alcune regioni del Nord  è quella  appunto del residuo fiscale. Si tratta, come spiega l’economista Gianfranco Viesti nello studio “Verso la secessione dei ricchi” (Laterza, 2019), di una stima e non di un dato oggettivo “Essa viene compiuta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa, quel territorio riceve meno spesa rispetto alle tasse versate; ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore.” 

In questo orizzonte è evidente il rischio di disallineamento dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) in tutto il territorio nazionale: un vulnus costituzionale all’omogeneità delle prestazioni tra Regioni abbienti e Regioni meno abbienti e all’eguaglianza dei diritti sul territorio che può determinare una frattura di sistema.

Lo Stato infatti dovrà definire i livelli minimi dei servizi erogati in modo uniforme sul tutto il territorio e dovrà stabilire – questione molto più ardua – le risorse necessarie a garantirli.

La Scuola nella Costituzione 

Per quanto concerne l’istruzione come è noto l’art. 34 della Costituzione definisce il diritto all’istruzione come uno dei cardini per l’eguaglianza sostanziale tra i cittadini e preclude – con la dizione “La scuola è aperta a tutti” – ogni pratica discriminatoria, quale può essere rappresentata da livelli di prestazioni molto differenziati in larghe fasce del territorio nazionale.

L’obbligatorietà e la gratuità dei relativi percorsi scolastici e il riconoscimento attivo del merito costituiscono una leva nell’adempimento del compito della Repubblica, espresso nell’art. 3: quello, cioè, di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Le norme contenute negli articoli 33 e 34 hanno dimostrato una valenza che è andata ben oltre la rotta scolastica indicata nei primi decenni della Repubblica, e il contesto educativo ha saputo ampliare le proprie connotazioni sia in tema di diritto all’istruzione che in tema di obbligo all’istruzione, con l’estensione ai minori stranieri presenti nel territorio nazionale e con la ridefinizione, operata dal decreto legislativo n 76/ 2005, del diritto-dovere “ per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età.”

Questa fondamentale materia nel testo costituzionale è costituita da varie tessere. Oltre ai principi e diritti fondamentali, previsti appunto, negli artt. 33 e 34, ci sono le “norme generali sull’istruzione” riservate alla competenza esclusiva statale dall’art. 117, dato che il mosaico del sistema nazionale di istruzione e formazione è ripartito tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato, relativamente, appunto, alle norme generali sull’istruzione, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni, relativamente all’istruzione e formazione professionale, e la potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni. Quest’ultima potestà definisce una competenza a legiferare dello Stato e delle Regioni con diversa intensità: un rafforzamento dei poteri organizzativi in capo alle Regioni interessate, fino, ad esempio, alla competenza sullo status giuridico ed economico del personale della scuola, ridurrebbe l’intervento dello Stato a quello di configurare una semplice cornice di disposizioni per un quadro regionale sulle tematiche educative.

Quanto il terreno sia minato è dimostrato dal fatto che nei quattro lustri in cui ha operato la riforma del Titolo V del 2001 il concorso (la potestà legislativa concorrente Stato-Regioni) si è spesso risolto in conflitto di competenze; un braccio di ferro politico e istituzionale che si è spostato spesso alla Corte Costituzionale, le cui sentenze hanno tentato di chiarire alcune ambiguità di fondo. Tale difficile situazione ha portato nel 2016 all’eliminazione della potestà legislativa concorrente nella riforma costituzionale che è stata però incautamente cancellata dal successivo referendum popolare. 

Ma ormai la questione sembra superata dal l’attuale più massiccio intervento di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.

I Livelli Essenziali delle Prestazioni

Nella potestà legislativa esclusiva dello Stato rientra la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni proprio come strumento di bilanciamento rispetto al decentramento, nell’intento di assicurare standard omogenei di prestazioni su tutto il territorio nazionale. Pur essendo i LEP collocati tra le materie oggetto di competenza legislativa statale, essi non sono una “materia” in senso stretto, come ha precisato la Corte costituzionale con sentenza n 282 del 2002, ma “ una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle.”

Nell’ambito dell’istruzione tale competenza, comprende dunque le principali tematiche sia di natura ordinamentale che di natura strumentale.

La garanzia, di rango costituzionale, di un’equa distribuzione su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) è richiamata dalla nuova legge n. 86, che prevede, all’art. 3,  appositi decreti legislativi per l’individuazione dei LEP, con una procedura complessa, le cui difficoltà risiedono non solo negli aspetti normativi, ma essenzialmente in quelli finanziari .

In tema di istruzione i LEP riguarderanno sia le norme generali sull’istruzione che la complessiva tematica dell’istruzione (lett. a) , d) dell’art. 116 terzo comma della Costituzione), ed è facile ipotizzare la necessità di significativi interventi finanziari per raggiungere quella che la stessa legge n. 86 chiama “la soglia costituzionalmente necessaria” per rendere effettivi i diritti civili e sociali.

Ed ecco che tutte le supposte buone intenzioni potranno franare sulla sostenibilità “dei relativi costi e fabbisogni standard” dei LEP (art. 4), perché nulla fa prevedere – nelle future stagioni di vacche magre con un debito pubblico che ha raggiunto i 3000 miliardi – un’inversione di tendenza per i finanziamenti relativi a determinati settori, scuola inclusa. Un grido d’allarme è venuto dal Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, con la recente dichiarazione sull’ammontare degli interessi che equivale al totale della spesa per l’istruzione. 

La regionalizzazione dell’istruzione – una sorta di local education – derivante  dall’incauta formulazione dell’art. 116 è in aperto contrasto, come già detto, con il successivo art.117, che ha voluto le norme generali sull’istruzione di esclusiva competenza statale, in armonia con lo stesso art. 33 della Costituzione “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione”, per assicurare il pieno raggiungimento del diritto all’istruzione su tutto il territorio nazionale. Va sottolineato che in questa norma  “Repubblica” è intesa, in senso restrittivo, nel significato di “Stato”; ben altra ampiezza il termine assume invece nell’art. 114 come unanimemente riconosciuto. 

La categoria delle norme scolastiche regionalizzabili sarebbe comunque vasta e opinabile: ad esempio alla regionalizzazione dello status giuridico ed economico dei docenti si potrebbe opporre la perdurante natura di competenza esclusiva statale delle materie inerenti l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato.

In merito poi all’autonomia lasciata alle istituzioni scolastiche, essa potrebbe in definitiva risultare compressa dalle nuove istanze regionali, con il risultato di un eccessivo squilibrio tra chi organizza un servizio e chi direttamente eroga il servizio stesso nei suoi aspetti curricolari. 

Comunque la regionalizzazione dell’istruzione, più o meno differenziata, comporterebbe inevitabilmente la fine dell’attuale Sistema Nazionale d’Istruzione, che ha saputo costituire il patrimonio educativo e culturale  di questo Paese.

A tale proposito Aldo Sandulli ne “Il sistema nazionale di istruzione” (il Mulino 2003) notava come: “La creazione di un sistema nazionale, sulla scorta dei modelli nord-europei e, in particolare, di quelli svedese e danese, rappresenta una delle chiavi di lettura maggiormente significative della riforma della scuola. Dalla c. d. scuola di Stato, di tipo burocratico-ministeriale – che rinveniva il suo punto di forza nei provveditorati e, quindi, nell’amministrazione periferica dello Stato, ed in cui gli insegnanti erano funzionari statali, inquadrati in un rapporto di servizio di tipo gerarchico, e le scuole costituivano meri terminali di erogazione della prestazione di istruzione – si è passati ad un modello assai più complesso e articolato, fondato sul decentramento e sulla sussidiarietà, che rinviene direttamente nelle istituzioni scolastiche, e nella loro autonomia, l’epicentro del rinnovato ordinamento.”

Il regionalismo asimmetrico e il referendum                                    

Scarsa fiducia si può infine riporre in tema di trasferimento delle risorse professionali dallo Stato alle Regioni che dovrebbe seguire a un così epocale federalismo di fatto perché è fuor di dubbio che nelle regioni ad autonomia differenziata sarebbe necessaria una riprogettazione dell’apparato scolastico intorno al nucleo essenziale di funzioni trasferite agli apparati regionali con un ritorno al passato, ma in chiave locale. 

La fisiologica resistenza degli apparati ha spesso determinato duplicazione di uffici anziché maggiore efficienza dei servizi. Come già notavo in “Scuola in frammenti” (Anicia 2020) “Gli apparati gestionali dell’istruzione e della formazione in Italia, in nome di un pur necessario decentramento amministrativo, hanno proliferato e frammentato le competenze con un allungamento dei processi decisionali e un aumento del volume di spesa improduttiva. Nel 1998 il decreto legislativo n. 112 fu in grado di fornire la configurazione delle attribuzioni, in tema di istruzione, dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni in una galassia di funzioni e competenze che successivi regolamenti hanno poi dettagliato a livello di uffici centrali, regionali e provinciali del Ministero Istruzione.”

Una supposta necessità di sopravvivenza degli apparati potrebbe prevedibilmente prevalere sulle esigenze di integrare i settori e renderli, con minor spesa, più efficienti e produttivi. 

Il tema di notevole rilevanza dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario è stato, dall’inizio del secolo ad oggi, la porta girevole del Palazzo della politica italiana. Nato dall’accordo tra Lega e Partito Democratico con la fiera opposizione della Destra, è uscito e rientrato con l’accordo tra Lega e Fratelli d’Italia con l’opposizione unitaria della Sinistra.

La complessità della materia e la sua rilevanza costituzionale non suggeriscono, certo, un approccio qualunquistico, ma si può immaginare, soprattutto in vista del referendum, che quelle porte siano destinate ancora a girare a lungo per l’attuazione di qualcosa che è difficilmente, e non auspicabilmente, attuabile. 

Infatti l’eventuale vittoria al referendum non segnerebbe soltanto l’abrogazione della legge n. 86 – una labirintica normativa diretta solo ad individuare procedure per l’attuazione dell’autonomia differenziata – ma renderebbe manifesto un giudizio politico e sociale fortemente negativo sull’intera partita del regionalismo asimmetrico.

Giuseppe Fiori

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