Arriva la guerra delle scuole ideologiche?
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Contorsioni, dissimulazioni e fondamentalismi all’opera o in agguato, come testimonia il Progetto di Legge 953 (d’iniziativa del deputato Aprea): “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”. Il saggio completo scaricabile in calce.
Chiunque intenda analizzare la Proposta di Legge 953, agli atti della settima Commissione della Camera dal 2009, e tenti di individuarne il fine ultimo e i possibili effetti, è destinato a incontrare difficoltà interpretative frequenti e insolite. Da qui il tentativo di cercar lumi nella precedente versione del testo, quella del 2008, ovviamente decaduta ma esplicita e argomentata quanto invece quella del 2009 riesce scabra ed enigmatica (qui le due bozze a confronto). Per di più il passaggio da un testo all’altro è agevolato dalla coincidenza di contenuti tra articoli e commi. Presto però il lettore scopre che non sta perlustrando, come supponeva, proposte anche diverse ma confluenti su traguardi identici o analoghi. Ha invece davanti a sé due progetti accomunati sì dal passatismo, ma anche due diverse concezioni del rapporto tra istruzione e istituzioni. Ne dà conferma, nei paragrafi successivi, il confronto dei due testi su ogni tema.
La PDL del 2008 mutuava dall’ondata neoliberista degli anni Settanta una terna di proposte magari scioccanti, ma pur sempre integrabili nel nostro sistema d’istruzione così com’è nato e rimasto, e cioè incardinato nella struttura burocratica dello Stato al punto da oscurare la legislazione che prevede ampia autonomia professionale per l’attività di insegnamento (L. 59/97 e DPR 257/99). Antitetica a essa si rivela la proposta del 2009, imperniata sulla sostituzione di enti e privati allo Stato in tutto l’ambito scolastico (finanziamento a parte). Giunge a rendere incerta perfino l’unica funzione irrinunciabile dello Stato di diritto rispetto alle scuole: il rigido controllo delle leggi ordinarie nella loro legittimità costituzionale. Che prevede libertà dell’insegnamento di arti e scienze, e pieno sviluppo della persona umana senza distinzione di sesso, razza, lingua e religione. Stupisce siffatta svolta nell’iter di uno stesso progetto, ma il raffronto segnala utilmente la diversità di obiettivi ultimi tra i due testi. Quello originario mirava al recupero della “Moratti” (L. 53/03, osannata e inapplicata), ma ne cancellava la pretesa di accentuare la specificità del liceo classico anche come modello per tutte le superiori. Pretesa incompatibile con la separazione tettonica delle due metà del Novecento: altrove il latino obbligatorio spariva dalle scuole, e dalle chiese anche qui; la tecno/scienza stava assumendo il dominio del mondo; il “miracolo economico”, la Media obbligatoria e la televisione alzavano i minimi culturali; la politicizzazione di massa legittimava la scuola di massa. Logico che il liceo dei licei perdesse il ruolo di riserva esclusiva di un’utenza preventivamente auto/selezionata per censo e cultura: incombeva così il pericolo più temuto dal conservatorismo scolastico, aduso a erigere i propri figli a futura classe dirigente fin dai banchi di scuola, e a ridurre il classicismo ad abilità di parola nell’uso del potere. Fu la “Moratti” il primo tentativo di salvataggio, e poi si ricorse, con la PDL del 2008, a pochi ma calibrati deterrenti che consentissero una gestione differenziata delle singole scuole: bastava dotarle delle facoltà di accedere a fondazioni e a risorse aggiuntive (se potevano), di assumere gli insegnanti con propri concorsi e di differenziarne la carriera con criteri meritocratici e gerarchici. Il ruolo di genium loci spettava ovviamente a famiglie ‘capaci’. Il resto come prima: regole e controlli dello Stato anche su fondazioni, reclutamento e carriere; compiti di indirizzo, programmazione e monitoraggio al collegio docenti; programmi ministeriali “coerenti con” la “Moratti”; il dirigente ancora e sempre presidio di Stato.
L’obiettivo ultimo della PDL 2009 è, invece, l’apertura totale a scuole che non vengono definite per quel che sono, e cioè “di tendenza”; ossia ideologiche. Anzi si evita di qualificarle, con lo scoperto intento di mimetizzarle nell’alone della normalità. Una omissione ne chiama altre: 1) non è spiegato come possa far fronte ai “compiti di indirizzo generale” l’organo denominato appunto “Consiglio di indirizzo”, al quale sono demandate in esclusiva vaste competenze insindacabili, dalla definizione e gestione dello statuto alla elaborazione e delibera del piano dell’offerta formativa. 2) non si capisce di quali competenze possa avvalersi, soprattutto nello specifico culturale e didattico dell’agire scolastico, se il collegio dei docenti viene soppresso; se le rappresentanze in Consiglio di docenti, genitori ed esperti locali diventano paritetiche; se i neonati dipartimenti tecnici possono soltanto programmare l’esecuzione delle decisioni del Consiglio. L’enigma si scioglie al XIII dei 17 articoli del testo, e non certo a opera di quest’ultimo: siccome lì si prevede che il reclutamento dei docenti avvenga mediante concorsi per titoli banditi dalle reti di scuole, e secondo le esigenze della programmazione degli istituti afferenti a ogni rete, il lettore può dedurre di suo quanto segue: le reti non sono altro che cordate ideologiche la cui testa, molto più provveduta di una o più scuole, detta a queste ultime gli indirizzi e agli insegnanti le modalità con cui inculcare l’inculcabile.
Se poi qualcuno chiede il perché di tanta reticenza da parte sia della stessa PDL sia dei media (unica eccezione “l’inculcante”), val la pena di richiamare l’attenzione sui seguenti dati di fatto. Col recedere, dal 2000, della politicizzazione di massa, le ideologie attive sono soltanto quelle religiose. Le religioni interessate a governare le scuole sono poche ma armate di tradizioni di potere, di imprenditorialità disinvolta e di giurisprudenza fendente. È probabile che nella circostanza ripongano fiducia più nelle promesse ottenute che nella propaganda. E potranno avvalersi anche della contrapposizione, tutta italiana, tra laici e laicisti, intendendo per “laici” tutti coloro che sono interessati a ignorare le ragioni per cui il fondamentalismo religioso è molto più lontano dalla spiritualità di quanto possa esserlo l’ateismo militante.
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Giorgio Porrotto