La scuola, le api e le formiche
"In natura ci sono due comunità operose: le formiche che curano la vita in comune e le api che scrutano nuovi paesaggi"
Il libro scritto dal senatore Walter Tocci nasce direttamente dal fuoco della battaglia politica accesosi attorno a quella che sarebbe poi diventata la Legge 107 del 2015, più nota come la “Buona Scuola”.
Non bisogna però considerarlo un instant book, né tanto meno un mero pamphlet, anche se non è di sicuro tenero con la legge così come si è andata configurando. Esso punge fin dall’incipit (p. VII): “la ‘Buona Scuola’ è una riforma mancata. Questa è la critica per certi versi più benevola e per altri più severa che se ne può fare.” E poi ancora (p. 3): “Al giovane compositore che gli sottoponeva il suo spartito per una valutazione, Gioacchino Rossini rispose lapidario: ‘Ciò che è bello non è nuovo, ciò che è nuovo non è bello”.
Si parte dalle ragioni che hanno spinto il governo Renzi a proporre questa riforma (lo stesso presidente del consiglio, in un momento del percorso legislativo, avvertendo lo scarto tra annuncio e realtà, “ha ridimensionato il messaggio, fino a raccomandare che non si parlasse di riforma” (p. 16), ma di norma conseguente alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea di giustizia e il conseguente esborso di forti sanzioni riparatorie, a causa della persistenza del nostro “precariato storico”, impiegato con contratti a tempo determinato ben oltre i 36 mesi consentiti nel resto dell’UE.
Bisognava fare quella che Tocci ha chiamato in modo suggestivo “la mossa del cavallo”, cioè assumere subito i centomila insegnanti, riannodare, in un clima di maggiore serenità e apertura, il dialogo con la scuola già in tumulto e operare così una “decisione generativa” (uno dei temi essenziali dell’intero libro, trattato nello specifico al cap. V, p.177).
Si è preferito invece intraprendere la strada della “narrazione riformatrice”, fondendo in un centone non privo di prolissità “vecchie novità” e alcuni elementi di autentico rinnovamento – in primis quello dell’allargamento dell’alternanza scuola-lavoro, in un’ottica che si richiama al “Dual System” tedesco. Interessante, a p. 53, il confronto quantitativo con altre leggi sulla scuola, tra le quali la 107 primeggia con le sue oltre 25.000 parole, a fronte delle 2.917 parole della legge Gui del 1962 (sulla scuola media unica), delle 6.606 dei Decreti Delegati del 1974, delle 1989 della riforma Berlinguer, delle 4626 della Moratti, delle 1418 della Gelmini.
Il difetto principale del testo della “Buona Scuola”, che Tocci coglie con grande lucidità, è proprio la mancanza di un saldo orizzonte interpretativo dell’oggi, senza il quale è impossibile una trasformazione autentica della scuola. Ciò conduce alla persistenza di equivoci perniciosi, sui quali si invoca chiarezza. Qualche esempio: il concetto più diffuso e, in apparenza condiviso, è quello dell’autonomia scolastica, “una sorta di mito originario che salva la ‘Buona Scuola’ dagli accidenti della realtà” (p. 30). Eppure anch’esso ha necessità di essere chiarito nel suo significato autentico, di “sistema istituzionale” e/o di “mondo vitale” (ibid.), due dimensioni, potremmo dire semplificando top-down la prima, bottom-up la seconda, “che invece di integrarsi si sono fatte la guerra”. Così è stato per il dualismo “decentramento-autonomia”, termini usati spesso come sinonimi e che sinonimi invece non sono.
La chiave del rapporto tra alto e basso è del resto un po’ il Leitmotiv dell’intero saggio, che esorta il riformatore a far diventare struttura, senza “recitare il rosario delle buone pratiche” (p. 79) lo straordinario “mondo vitale” che la scuola da sempre esprime, salvando così il sistema educativo dalle “ossessioni normative” che lo hanno travolto negli ultimi lustri.
In questa luce si sgranano le perle nere di una collana tutta italiana, neppure sfiorate o addirittura nominate nel testo della “Buona Scuola”: il ritardo ormai insostenibile di un Mezzogiorno che, nonostante l’indubbia “vitalità del suo mondo” rischia la desertificazione culturale (l’accentuata varianza dei dati OCSE-PISA sulle secondarie superiori, la radicale diminuzione degli iscritti alle università del sud, il costante flusso emigratorio dei cervelli migliori stanno a testimoniarlo), l’assenza di una politica volta al superamento delle diseguaglianze e alla buona integrazione degli alunni di origine non italiana, la lotta alla dispersione scolastica e per un più efficace orientamento, il cosiddetto Life Long Learning, a cui in buona sostanza si dedica il penultimo capitolo del libro, intitolato significativamente “La scuola è mondo”.
Riconoscendo un carattere di organicità (non più raggiunto in seguito) alle mancate riforme di Berlinguer e, “cavallerescamente”, al successivo altrettanto inattuato disegno di legge Aprea, si allarga poi il discorso all’integrazione ormai ineludibile tra apprendimento formale, non formale e informale, all’apertura, non solo fisica, di un’edilizia scolastica profondamente rinnovata, alla riflessione necessaria sul tempo-scuola, che non può essere ancora quello della Ratio Studiorum gesuitica e alla riconfigurazione dei cicli, non più corrispondenti alle articolazioni effettive del percorso scolastico (basti pensare alla questione dell’obbligo, che si assolve – solo formalmente – all’interno del ciclo superiore, senza che tale terminalità sia stata davvero pensata e organizzata). Come abbiamo accennato, il capitolo finale è dedicato alle “decisioni generative”. Qui si ribadisce la assoluta necessità di un progetto, senza il quale “non si governa la scuola, neppure nei problemi più semplici della vita quotidiana.”
Eccole, dunque, le decisioni generative che la politica dovrebbe prendere, feconde in quanto nate da una insufficienza, che lascia aperta la porta al futuro, poiché è nei “sentieri interrotti [che] si manifesta la vitalità della scuola italiana. Tutti i suoi avanzamenti sono stati anche degli sviamenti. Solo nell’incompiutezza dei cammini si ritrova la lunga durata dei progetti.” (p. 180). E le decisioni generative che la politica dovrebbe prendere potranno essere feconde proprio in quanto nate da un’insufficienza, poiché è nei “sentieri interrotti [che] si manifesta la vitalità della scuola italiana. Tutti i suoi avanzamenti sono stati anche degli sviamenti. Solo nell’incompiutezza dei cammini si ritrova la lunga durata dei progetti.” (p. 180).
La scrittura del saggio è sempre tesa, autenticamente appassionata e scevra di retorica e in essa non mancano immagini di grande efficacia. Pregnante quella con cui si spiega il non facile tema della “modernità riflessiva come processo auto-generativo della competenza sociale” (p. 68): ” È il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza.” Ma è il titolo, che, con sapienza quasi esopiana, ritrae le comunità delle formiche “che curano la buona vita in comune” e le api “che scrutano curiose nuovi paesaggi per arricchire gli alveari” a riassumere, in una dualità che deve restare permeabile e irrisolta, il cammino additato alla saggezza dei futuri riformatori.
Per approfondire:
Claudio Salone