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Dispersione scolastica: la scuola non basta

Pubblicato il: 05/10/2015 11:22:35 -


Dopo decenni la dispersione resta un fenomeno rilevante, che può essere aggredito solo con politiche sociali coraggiose e di incentivo al lavoro affiancando l’operato della scuola.  
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Dopo anni di discussioni e progetti, siamo ancora qui a parlarne: non è un buon segno. Eppure tutto comincia da quei ragazzi “fuori”, fuori dalla scuola e dall’orizzonte delle occasioni.

Li chiamano “drop out”, per dire che sono scivolati fuori, appunto, dal percorso formativo che dovrebbe garantire loro un ruolo, un’identità, un futuro; e spesso anche dal sistema di regole, condiviso, che ordina la comunità: fuori, dunque, dalla società.

Secondo uno studio di Bankitalia, l’abbandono scolastico, nel nostro Paese si colloca al di sopra della media europea: a fronte di un 15% continentale, infatti, si rileva in Italia una percentuale pari al 20%. Ma quest’ultima sale drammaticamente se si guarda ai casi della Campania, della Sicilia e della Puglia. Nonostante l’impegno di chi lavora ogni giorno con dedizione, gli ultimi dati sono tutt’altro che incoraggianti: in Italia la dispersione scolastica varia dal 19,6 al 22 per cento, con picchi del 34% in Campania, una condizione patologica che sembra essersi cronicizzata.

La mole di dati raccolta negli anni sul tema della dispersione è impressionante. Ma a fronte di questa approfondita analisi, il dramma dell’abbandono scolastico resta uguale a sé stesso. Le cifre che inquadrano il fenomeno, infatti, sono più o meno le stesse da oltre 20 anni e la correlazione tra povertà familiare e dispersione scolastica è fortissima e tuttora irrisolta. Significa che il sistema non promuove né sostiene le classi più povere.

Così, ancora oggi, l’esercito dei dispersi lo ritrovi per strada. A ciondolare, se va bene, a delinquere quando va peggio, a uccidere o a morire se finisce in tragedia. Non è, quest’ultima, un’ipotesi astratta. Di fronte alla “paranza dei bambini”, che negli ultimi mesi a Napoli ha lasciato a terra molti, troppi giovani corpi senza vita, la domanda è obbligatoria, urgente, direi opprimente: “Dove vanno i figli della Napoli più povera e marginale quando finisce la scuola? Dove li porta il loro smarrimento, la loro smania di scappare da famiglie che sono squarci di inferno?” E ancora, “quando la scuola ricomincia, ricomincia anche per loro?” La risposta in molti casi è: no.

Anche in questi giorni, quei ragazzi di sedici, diciassette, diciotto anni li troviamo per strada, condannati da un humus familiare ed ambientale che li trascina, come dicevamo, “fuori”, dove i genitori sono disoccupati, vivono di espedienti o peggio di delinquenza, e il branco dei coetanei è risucchiato dalla fascinazione camorristica, che predicando cinismo, prepotenza e sprezzo delle regole promette potere, protezione e facili guadagni.

La Provincia di Napoli, con i suoi 175 mila studenti, è la più grande d’Italia. Di questi, ben 1 su 2 lascia la scuola prematuramente. Una disfatta inaccettabile poiché, se non riesce a recuperare i ragazzi più difficili, la scuola – e con questa la società – tradisce il proprio mandato. Per dirla con Don Milani, se si perdono loro, la scuola non è più scuola.

Ecco perché quegli zombie bussano alla porta della nostra coscienza. E allora, dopo anni di fallimenti, di progetti a singhiozzo, di soldi pubblici spesi senza una vera visione di lungo periodo, una cosa appare evidente: per uscire dal guado e vincere sul serio la sfida contro la dispersione scolastica bisogna superare le soluzioni-tampone per entrare in una logica strutturale. Bisogna, insomma, ribaltare la prospettiva, rimestando in quel brodo di coltura nel quale alligna la sottocultura nichilista della sopraffazione e della rassegnazione che sta affondando il Sud.

Per questo, dobbiamo anche chiederci: cosa c’è fuori dalla scuola, intorno alla scuola?

La risposta può essere una sola: serve al Sud una grande opera di risanamento sociale. Un progetto imponente nel quale la scuola deve occupare senza dubbio un ruolo centrale, ma non certo esclusivo, salvifico. L’aula, infatti, non è un mondo a parte, ma è una parte del mondo. Ed è perfino banale ricordare che non esistono ricette miracolose, che una rivoluzione culturale richiede massimo sforzo da parte di tutti i livelli istituzionali, nessuno escluso, e di una forte, corale volontà politica, nel senso più ampio e più autentico del termine.

Bisogna gettare nel terreno arido dei quartieri-ghetto, delle periferie dimenticate, disperse e sbandate come i loro figli, i semi di una concreta speranza, che non significa soltanto educazione, istruzione, formazione, ma anche vie di uscita dal tunnel: Dunque, occupazione, decoro urbano, una qualità della vita degna di un Paese moderno, progresso civile ed economico e, soprattutto, l’aspettativa di un domani migliore dell’oggi.

E se è vero che gli studenti sono prima cittadini, alla nuova e illuminata visione del Mezzogiorno che vorremmo non può sfuggire l’esigenza di coniugare gli interventi a sostegno dei ragazzi in difficoltà con un’altra urgenza di primaria importanza, quella del lavoro: il processo formativo e le azioni positive per il recupero dei “dispersi” della scuola, infatti, finirebbero per essere sterili se non fossero accompagnati dall’apprendistato e dalla formazione professionale e da un piano di assistenza alle famiglie.

Soltanto quando si ritroverà l’orgoglio perduto – quello individuale e quello collettivo – si potrà disegnare una scuola dell’inclusione capace di vincere contro le sirene del disimpegno, del disfattismo, del crimine, vincendo non qualche battaglia ma la guerra.

Chi ritiene di poter delegare agli insegnanti la soluzione di un dramma sociale di tale portata o è sprovveduto o è in malafede; comunque, non sa o non vuole affrontare seriamente il problema. La scuola non può farcela da sola e per questo non deve restare sola.

Angela Cortese

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