ESAMI DI STATO E PROVE SCRITTE: DAL CANONE STANDARD ALLA COMPLESSITA’

La questione degli esami di stato di fine secondaria può essere esaminata da vari punti di vista. Si possono, come spesso accade, analizzare e criticare aspetti specifici delle singole prove o discutere sulla struttura generale dell’esame e persino della sua utilità. Si può anche, come si fa qui, proporre è un’analisi di livello intermedio, dedicata alle caratteristiche strutturali delle prove scritte. Le prove scritte dell’esame di maturità sono molto cambiate rispetto a quelle tradizionali, a partire, più o meno dagli anni ’80. Espressioni come “quest’anno è uscito Verga” oppure “quest’anno lo scritto di elettrotecnica era sul trasformatore” non hanno più molto senso.

Si può dire, in altri termini, che si è perso il concetto di canone o di standard. All’origine dei cambiamenti, comuni a gran parte delle seconde prove scritte e anche a quella di italiano, ci sono due elementi. Il primo è l’ingresso, nei curricoli, di una certa opzionalità e, quindi, di una minore prevedibilità degli apprendimenti effettivamente acquisiti dagli studenti. Questo problema si rivelò in modo esplicito per le seconde prove scritte quando, negli anni ’80, giunsero alla maturità le prime sperimentazioni autonome.

Occorreva dare una seconda prova comune a tutte le sperimentazioni simili, ma era impossibile somministrare le stesse prove dei corrispondenti corsi normali, generalmente basate su un argomento specifico scelto dal programma ufficiale. Da qui nacque una pratica che portò a modelli di prove in cui prevalevano due tipologie.

La prima, adottata ad esempio in matematica, risolveva il problema proponendo più quesiti specifici fra i quali sceglierne un numero minimo: un modo per cogliere comunque il bersaglio.

La seconda, adottata spesso negli Istituti Tecnici, poneva agli studenti un problema aperto, generalmente un progetto abbastanza complesso, per il quale ogni studente doveva proporre una soluzione di principio, strutturale, e poi scegliere lui stesso una parte da realizzare con le tecniche da lui conosciute. Si poteva chiedere, ad esempio per l’indirizzo informatico, di proporre una soluzione logico-strutturale per la progettazione di un sistema di prenotazione automatica dei posti in un teatro e poi di realizzarne una parte, a sua scelta, codificandola con uno dei linguaggi conosciuti.

Il passaggio alle sperimentazioni assistite, che alla fine raggruppavano la quasi totalità dei curricoli, confermava sostanzialmente l’adozione di queste tipologie.

Anche con i recenti riordini, con il passaggio da programmi standard a indicazioni nazionali, è rimasta la stessa linea, anche se con varianti. Una di queste, visibile in molte prove dell’anno in corso, consiste in un mix delle due tipologie: si parte da un problema di una certa complessità, da studiare e risolvere, e si propone poi di sviluppare uno o più aspetti specifici, non a piacere, ma a scelta in un elenco dato.

Si veda, ad esempio, il problema di matematica dei licei scientifici e molti problemi dell’istruzione tecnica di quest’anno. Il secondo elemento è lo sviluppo di una cultura della valutazione che ha in qualche modo consolidato e reso sistematici i nuovi modelli. Due idee, presenti da tempo nella pedagogia, hanno acquistato diritto di cittadinanza anche per merito delle prove OCSE-PISA.

La prima è che, anche all’interno di un ambito disciplinare, il sistema delle competenze è stratificato e vario e richiede strumenti di valutazione diversi. Basta pensare alle prove di Italiano e alla richiesta di comporre secondo stili e format diversi (saggio breve, articolo di stampa, ecc). Esiste un movimento per la revisione anche delle prove più tradizionali e coriacee, quelle di latino e di greco, per le quali oramai si chiede l’uscita dalla sola versione.

La seconda è che ciò che occorre testare sono competenze significative in un qualche contesto sociale, culturale o professionale. Questa idea è in linea con una delle scoperte pedagogiche più antiche: quella che un apprendimento radicato e permanente (Deep Learning, come si dice oggi) richiede che le specifiche conoscenze e abilità disciplinari vengano riconosciute e applicate in contesti diversi e imprevedibili. A parte qualche vizio (pletoricità, ambizioni eccessive, format non sempre coerenti) e le varie “perle nere” puntualmente individuate e denunciate dai giornali del giorno dopo, il percorso è, in linea di principio, condivisibile.

Ma a questo punto nasce il vero problema, ed è quello del rapporto fra questi tipi di prove e la didattica usuale durante l’anno. Molti indizi fanno pensare che la pratica di valutazione prevalente nelle varie discipline sia dedicata a singole e specifiche abilità e conoscenze, quasi mai decontestualizzate. Riportiamo un brano da un forum di discussione di insegnanti di matematica attivato dopo le seconde prove di quest’anno: “Il problema e` che, come si evince dai primi commenti, i ragazzi rimangono spiazzati da quesiti “non standard”. Come dici anche tu, tali quesiti sono in un certo senso anche piu` semplici da risolvere: il problema pero` e`… ragionare per trovare la strada e questo e` piu` complicato per la maggior parte degli studenti in generale abituati piu` a far di conto. Ad esempio, gli studenti non sono sempre in grado di interpretare il grafico di una funzione per determinarne le proprieta` richieste nel problema e nei quesiti. Certamente questo tipo di prova d’esame indica una strada da seguire anche per i docenti nella preparazione degli studenti. Il problema e` che in poco tempo e` cambiata la tipologia di prova e gli studenti ( e anche i docenti) sono rimasti spiazzati.”

L’analisi e la terapia non potrebbero essere più chiare! Se le forme dell’esame evolvono rapidamente possono anche avere una funzione di traino per la trasformazione della pratica didattica, ma questo non è automatico: occorrono discussione e sperimentazione (cioè ricerca educativa). Altrimenti l’esame rischia davvero di diventare un rito inutile.

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Mario Fierli