Da “tutti a scuola” a “una scuola per tutti”
Credo sia più che positivo che si sviluppi un confronto serrato sul problema della valutazione dei docenti e sulle diverse prospettive e proposte per identificare sensate soluzioni. Sempre che l’ampiezza e la vivacità della discussione non si rivelino, come in passato, proporzionali al “nulla di fatto” realizzatosi. Guardando ai numerosi interventi su queste pagine (sottolineo in particolare il saggio di De Marco e l’intervista a Checchi realizzata da Walter Moro), e non tornando su argomenti già affrontati in miei interventi precedenti (“Sulla valutazione del personale della scuola”, “Aggiustare la mira o inventarsi i bersagli”…) voglio aggiungere alcune ulteriori precisazioni.
1. Hanno ragione tutti gli intervenuti che indicano come del tutto insostenibile (al limite della sciocchezza) l’ipotesi di un sistema che valuti i docenti sulla base dei risultati raggiunti dagli studenti. Le variabili che presiedono all’apprendimento sono (per fortuna) più numerose e complesse di quelle determinabili esclusivamente dai docenti. (Da tante e diverse ricerche internazionali emerge una influenza specifica del docente sui risultati degli studenti sempre inferiore al 50%). Non si conosce alcun sistema di valutazione dei docenti cortocircuitato sulla valutazione degli studenti. Ma… chi sta proponendo un sistema simile? È vero, in qualche occasione qualcuno, per giocare effetti mediatici, ci prova a proporre cose simili. Ma è un agitare fantasmi piuttosto che consolidare proposte attuabili. È una metafora che uso spesso: c’è sempre qualcuno che libera la volpe per organizzarne la caccia. Come si sa l’animale in quel caso è un optional, non un obiettivo. L’obiettivo vero è che i cavalieri si mettano al galoppo. In questi casi sprecare energie nelle levate di scudi è inutile e deviante. Meglio lasciare libera la volpe che si disperda nella brughiera. E infatti… di tanto parlare di merito e di premi, di individuare “i migliori”, che resta alla fine? Il problema che si aveva all’inizio: come costruire un sensato e condiviso sistema di valutazione. I cavalieri smettano di inseguire la volpe e si fermino a pensare e formulare proposte.
2. Non conosco neppure alcun sistema di valutazione (sia nell’impresa che nel pubblico) che sia basato sulla “valutazione del risultato” (come se “il risultato” fosse una categoria universale: per argomentare si veda l’articolo “Sulla valutazione del personale della scuola”). In realtà non si valuta il risultato, ma il “rapporto tra obiettivi e risultato”. La banale precisazione apre una questione fondamentale: la definizione degli obiettivi. “Accrescere il livello culturale degli studenti” non è un obiettivo, ma una finalità generale (ci mancherebbe il contrario). “Tutti gli studenti della classe IIA, alla fine del biennio superiore, acquisiscono la certificazione B2 in inglese” è invece un obiettivo. “Il 90% degli studenti del quinto anno superiore ha la certificazione completa ECDL” è un obiettivo. “Aumentare del 10% i punteggi nei test INVALSI e diminuire dell’X% la deviazione standard” è un obiettivo (a questo servono le rilevazioni INVALSI: non a sostituire la valutazione dei docenti, ma a fornire dati diagnostici e possibili indicatori per la riflessione sul proprio lavoro). Ma, mi rendo conto, proprio nella definizione degli obiettivi sta una sfida culturale e scientifica per le scuole. Meglio dedicarsi a ciò che rincorrere la volpe. La scuola, l’organizzazione specifica della scuola autonoma è una organizzazione capace di operare “per obiettivi”? E se sì, come li formula, li esplicita, li assegna al personale, li verifica nel processo e negli esiti? E se, invece come penso, è una organizzazione a “matrice mista”(per obiettivi, variabili e per procedure costanti) come combina i due elementi nella sua matrice concreta? E ancora: come si (ri)organizza il lavoro docente almeno per la parte configurabile come “lavoro per obiettivi”, con quali strutture operative, responsabilità, “processi di lavorazione”? Rispondere a queste domande, o almeno cominciare a farlo è preliminare a qualunque assennato modello di valutazione del lavoro docente. Ma a chi tocca cominciare a rispondere a tali domande? Lasciamo fare al “superiore Ministero” accontentandoci del contrappunto frustrato, e “indignatamene rabbioso” di chi si sente “oggetto” di proposte e non “soggetto”?
3. La riflessione critica sui cosiddetti “standard” e sul rischio di deriva di appiattimento che contengono è doverosa. Ma… la problematica degli standard non ha molta cittadinanza nella nostra scuola (come quella del lavoro per obiettivi). Essere avvertiti delle notazioni critiche che provengono da sistemi che l’hanno più esplorata e praticata è doveroso e sensato. Ma non esime affatto dalla necessità di provarci, armati proprio di tali avvertenze critiche. Anche perché vi è uno “standard implicito” costituito dal ripetersi spesso sempre uguale a se stesso per anni, delle medesime modalità di insegnamento, dei medesimi programmi, delle stesse modalità di valutazione, finanche delle medesime parole usate, delle “formule culturali” che spesso caratterizzano l’insegnamento (ovviamente esclusi i lettori di Education 2.0).
4. La valutazione del personale (nell’impresa, e la scuola non dovrebbe costituire una eccezione) ha normalmente due finalità: la gestione del personale (mettere la persona giusta al posto giusto) e l’uso di incentivi (normalmente, ma non esclusivamente, economici. Spesso anche nell’impresa il solo incentivo economico rischia conseguenze distorcenti, specie nelle alte qualifiche). La prima delle due finalità (gestione del personale), nella scuola e in generale nella Pubblica Amministrazione è spesso fuori portata. La gestione del personale è imprigionata in dispositivi normativi definiti erga omnes e formalizzati, che eliminano ogni flessibilità operativa. Così rimane solo la questione economica che, come tale si presta a tutte le deformazioni possibili: dalla distribuzione a pioggia al delirio del “premiare i migliori”, singolarmente individuati. Come dare senso alla categoria della “gestione del personale” nella scuola è un’altra sfida culturale di prima grandezza che investe tutti gli istituti del rapporto di lavoro: tempi, spazi, cadenze, responsabilità, accessi, mobilità interna, organici ecc. Oggi il campo è dominato da dispositivi formali (cattedre, classi di concorso, ore di lezione, organici definiti “statisticamente” ecc.). È questione che riguarda le relazioni sindacali. Personalmente ritengo che o si procede con coraggio a rivedere l’incastellatura formale che imprigiona il lavoro concreto (e così si dà senso autentico alla parola contrattazione, ma anche fiato all’autonomia), oppure il sindacato rischia di “conformarsi” all’Amministrazione, di essere il suo “doppio speculare”.
5.Ammiro sinceramente gli sforzi per immaginare articolazioni interne dell’organizzazione del lavoro nella scuola (vedi il saggio di De Marco): responsabili di valutazione, figure di sistema, dipartimenti disciplinari, figure di staff ecc. (paradossi del linguaggio: ma se adottiamo un paradigma staff/line nella scuola, chi è la “line”? E cosa fa?). Ma bisognerebbe partire, senza pregiudizi e auto difese, da alcuni dati ”brutali”. Il numero medio di alunni per classe nel nostro paese è inferiore a quello della media OCSE di circa il 20%. Il numero medio di alunni per docente è inferiore di oltre il 30%. Lo stipendio finale dei docenti italiani è inferiore alla media OCSE di circa il 20% (con variazioni dalla primaria alla secondaria). Ma le ore medie di insegnamento sono inferiori rispetto alla media OCSE di circa il 20%. Le ore di insegnamento strettamente legate al “curricolo obbligatorio” sono invece superiori a quelle analoghe OCSE di circa il 15%. (Dati dall’ultimo rapporto “Education at glance”). So che anche solo rammentare tali dati fa scattare numerose (e affannate) eccezioni di autodifesa: dal richiamo alla presenza del sostegno a quella dei docenti di religione, alle caratteristiche disomogenee del territorio italiano che falsano il significato dei valori medi. Tranquilli non è questo il punto che voglio approfondire. Se si guarda a quei dati complessivamente, e mettendo da parte tutte le autodifese, ne emerge una “diagnosi storica” che è importante tenere presente: la politica del personale nella scuola è storicamente caratterizzata in termini di labour expensive. Non poteva probabilmente che essere così in un paese che doveva arrivare rapidamente (a partire dagli anni ’60) al traguardo della “scuola di massa”, del “tutti a scuola”. Ogni obiettivo di crescita si traduceva in aumento della estensione del personale e in una omologazione di tutti al “curricolo obbligatorio”, in costanza di modelli organizzativi e, sostanzialmente, di ordinamenti. (Le “riforme” di questi ultimi, dalla media unica, alla scuola elementare, per tacere della superiore, a prescindere dal merito del loro contenuto, sono state tutte disconnesse tra loro, sia per tempi – un arco temporale di quaranta anni! – sia per inesistenti raccordi interni). La domanda cruciale è se, raggiunto almeno formalmente quell’obiettivo (tutti a scuola), la politica del personale possa continuare a essere sviluppata con quell’unico parametro (labour expensive). Con questa domanda di fondo dobbiamo fare i conti. E li stiamo facendo nel modo peggiore: contrastando punto a punto, e quindi necessariamente perdendo progressivamente un “pezzo” a ogni tappa, l’uso dei “tagli orizzontali di spesa”.
6.Bisognerebbe saper sparigliare le carte, altrimenti chi tiene il mazzo vincerà sempre. Non è certo questione che possa essere affrontata in queste note, tante sono le articolazioni del capitolo intestato alla “gestione del personale”: formazione, reclutamento, classificazione del lavoro (classi di concorso, discipline, cattedre), determinazione degli organici, autonomia organizzativa reale delle scuole autonome ecc. Mi limito solo ad affermare che è “la” questione nodale. Per molte ragioni. Perché altrimenti non si reperisce alternativa economica a una Amministrazione che “taglia” con la medesima cecità con cui “spende”. Ma soprattutto perché, come spesso ripeto, mi pare conclamato il fatto che, se abbiamo ottenuto l’obiettivo storico del “tutti a scuola” siamo ancora lontani da quello di “una scuola per tutti”.
Di nuovo la questione sottesa è: spazi, tempi, organizzazione del lavoro, ambienti di apprendimento, devono costituire il “cuore duro” della riflessione. L’unico che abiliti davvero a parlare di “investimenti” nella scuola e non solo di “spesa” per la scuola.
Franco De Anna