Conciliazione che viene conciliazione che va
Il momento dell’introduzione di significativi e diversificati mutamenti di riti e di scenari nel sistema giuridico nazionale è da sempre contrassegnato da indecisioni, polemiche corporative, difetti di applicazione, necessità di chiarimento, scosse di assestamento, interventi correttivi “in corsa”. È quasi fisiologico che accada anche ora in questa materia che attiene la tutela dei diritti dei cittadini.
In prima battuta sembrerebbe argomento lontano dalla vita scolastica, che però, a pensarci bene, vi si potrebbe all’improvviso manifestare in tutte le sue particolarità quando, all’insorgenza di una inevitabile svolta della vita quotidiana, le dinamiche confliggenti degli attori della scena sociale dovessero ritenersi patologicamente non conciliabili. E questo è il momento in cui i soggetti hanno la necessità di rivolgersi all’ordinamento giuridico per la composizione delle proprie pretese nei modi e nei termini di legge.
La novità sulla scena è rappresentata dalla “conciliazione obbligatoria” introdotta dal D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28, regolata dal DM 18 ottobre 2010 n. 180 e resa obbligatoria a partire dal 21 marzo scorso. È la conciliazione il cui tentativo è da espletarsi preventivamente qualora si voglia intraprendere una azione giurisdizionale per la difesa dei propri diritti ritenuti lesi. Nel suo ambito di applicazione ricadono i diritti reali, la divisione, le successioni ereditarie, i patti di famiglia, la locazione, il comodato, l’affitto di aziende, la responsabilità medica, la diffamazione a mezzo stampa (o altro mezzo di pubblicità), i contratti assicurativi, bancari e finanziari. A questi temi tra un anno verranno aggiunti quelli del condominio e del risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.
Alla notizia della conciliazione obbligatoria che arriva fa eco l’altra relativa a un’altra conciliazione obbligatoria che sparisce. È (o meglio era) il tentativo da espletarsi obbligatoriamente nelle controversie individuali di lavoro (ex art. 410 del Codice di procedura civile ora modificato in termini facoltativi dall’art. 31 della legge 4 novembre 2010, n. 183) presso la commissione di conciliazione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro nel caso i soggetti interessati non avessero voluto ricorrere alle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi (queste ultime procedure ancora percorribili ex art. 412 ter.). Lo stesso art. 31, al comma 9, dispone poi l’abrogazione degli artt. 65 e 66 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165, contribuendo a rendere ancor più flebile la separazione disciplinare del lavoro dei dipendenti pubblici da quello del settore privato.
Possiamo parlare di atteggiamento contraddittorio del legislatore? La risposta potrebbe essere positiva se si rimanesse alle apparenze della definizione classificatoria (conciliazione obbligatoria) e del tempo di applicazione (momento prodromico all’azione contenzioso-giurisdizionale). La risposta è negativa se invece si tiene conto degli aspetti che differenziano una conciliazione dall’altra. Ne segnalo alcuni tra i più evidenti. Il primo riguarda la rispettiva provenienza. Di provenienza europea, la prima è strumento tipico della “ADR” (Alternative dispute resolution) volto alla composizione tempestiva e rapida delle controversie insorte prevalentemente in ambito commerciale e bancario. La seconda nasce dalla spinta riequilibratrice di quel diritto del lavoro in altro articolo già definito “diseguale” ed è frutto della riforma del processo del lavoro introdotto con la legge 11 agosto 1973, n. 533 che ne prevedeva la presenza seppur in modo facoltativo (l’obbligatorietà è stata successivamente introdotta con l’art. 36 del D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 80). Un’altra differenza riguarda la qualità dei soggetti. La conciliazione obbligatoria del D.lgs. 28/2010 vede una posizione di perfetta parità tra i due o più soggetti chiamati a comporre la propria lite in un sistema di risoluzione delle controversie, volontario e privato, mediante un accordo che ponga fine alla disputa con l’aiuto fondamentale di un terzo imparziale e competente (il mediatore). Nella conciliazione dell’art. 410 del Codice di procedura civile, di cui è evidente la natura pubblicistica della tutela degli interessi in gioco, la parità effettiva dei soggetti contendenti la si può riscontrare solo nella struttura delle commissioni composte dai rappresentanti delle parti in conflitto. Altra differenza è rappresentata dall’oggetto della conciliazione: mentre nella prima è essenziale la perfetta disponibilità alle parti dei diritti in gioco, nella seconda la disponibilità dei diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del Codice di procedura civile è limitata dall’invalidità delle eventuali rinunce o transazioni ai sensi dell’art. 2113 del Codice civile.
A questo punto non resta che parlare delle “leggerezze” del legislatore. La prima si esprime con una considerazione e un quesito: se il meccanismo conciliativo ex art 410 del Codice di procedura civile costituito ai fini di garantire la parità sostanziale dei soggetti si è rivelato, forse proprio per la composizione della commissione di conciliazione, un passaggio obbligato e ininfluente rispetto alla successiva fase giurisdizionale, perché per “risolvere il problema” il legislatore lo mantiene alleggerendolo del carattere di obbligatorietà? Se non ha funzionato quando era obbligatorio si può supporre che in questo contesto funzionerà ancora meno nella sua veste facoltativa. Forse era più coerente abrogarlo, ma ciò avrebbe comportato un manifesto e censurabile ritorno al passato, oppure, meglio, era opportuno un suo potenziamento sviluppando soprattutto un suo carattere di terzietà ed equidistanza mantenendo gli elementi di rappresentanza delle parti in conflitto oltreché la sua obbligatorietà.
Altra considerazione è quella afferente alla sequenza Direttiva Europea 52/2008/CE – art. 60 della legge 19 giugno 2009 n. 69 – D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28.. La Direttiva europea rendeva possibile allo stato nazionale di rendere “obbligatorio” il ricorso alla mediazione. L’art. 60 della Legge n. 69 nel prevedere che la mediazione finalizzata alla conciliazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia, non cita l’obbligatorietà della stessa puntualmente richiamata, invece, dall’art. 5 del Decreto legislativo favorendo l’insorgenza di critiche, alcune anche con velato spirito corporativo, tali da richiedere il pronunciamento della Corte Costituzionale.
Data la possibile influenza della questione sul lavoro soprattutto dei dirigenti scolastici alle prese con questioni giurisdizionali, non si mancherà di ritornare sull’argomento.
Tonino Proietti