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Principi costituzionali e riforma dell’Università

Pubblicato il: 29/10/2012 15:07:32 -


La libertà di ricerca e insegnamento e il diritto allo studio alle prese con la riforma Gelmini.
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– R. Calvano, “La legge e l’Università pubblica in Italia. I principi costituzionali e il riassetto del sistema universitario”, Jovene, Napoli 2012, pp. 168.

Sin dalla sua adozione, la legge n. 240 del 2010 ha suscitato seri dubbi di costituzionalità. La questione affrontata non è tanto quella delle scelte politiche che essa sottende, all’interno del quadro più ampio che ha un suo punto qualificante nella legge n. 133 del 2008 recante tagli significativi che tuttora colpiscono il sistema dell’istruzione e della ricerca; tali scelte politiche la rendono leggibile in prospettiva come tassello di un discorso normativo che porterà ad un significativo ridimensionamento del sistema universitario pubblico, e ad un inserimento nello stesso di elementi privatistici progressivamente preponderanti. Il problema esaminato nel volume è piuttosto quello della compressione significativa dei principi costituzionali di riferimento attuata dalla legge n. 240 e dai provvedimenti attuativi che la stanno rendendo operativa.

Se già la struttura e il linguaggio della legge sottendono un’impostazione del tutto inconciliabile con i fini perseguiti (un eccesso di normazione, una volontà iperburocratizzante che tutto prepara meno che snellimento e semplificazione, un linguaggio aziendalistico che ignora le categorie del diritto amministrativo, una volontà quasi sanzionatoria nei confronti del corpo docente tradita in più punti del disposto che confligge con la retorica meritocratica del provvedimento), il disposto cozza in alcuni punti in maniera evidente con il dettato costituzionale.

Le questioni sullo sfondo sono principalmente due.

Da un lato la compressione della garanzia del diritto allo studio, con buona pace dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” ai quali la Costituzione all’art. 34 garantisce il raggiungimento del grado più alto degli studi. Tale pare il risultato inevitabile dello svuotamento del tetto massimo, previsto dalla legislazione previgente, per le tasse universitarie studentesche, da parte di una disciplina che mantiene solo formalmente invariato il limite massimo delle stesse (v. d.lgs. 49 del 2012 e d.l. 95 del 2012, la cd. “spending review”). Inoltre una compressione della garanzia del diritto allo studio non potrà che derivare dalla riduzione drastica dell’offerta formativa degli atenei, oltre che dalla diminuzione dei servizi agli studenti derivante inevitabilmente dal progressivo definanziamento del sistema universitario. Tutto questo mentre impera la “retorica meritocratica”, che sembra davvero non dover prevalere sull’uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 comma 2 Cost., che imporrebbe allo Stato di garantire i diritti sociali (tra cui quello allo studio) di “tutti”, e non dei soli “eccellenti”. Tutto questo mentre l’Ue ci chiede di raddoppiare l’investimento in istruzione e ricerca.

La seconda questione fondamentale è poi quella della riserva di legge che l’art. 33 comma 6 Cost. pone in materia di università, che richiederebbe una legge “generale” che ponga limiti “esterni” nell’ambito dei quali si svolga l’autonomia costituzionalmente garantita (soprattutto quella statutaria e normativa) degli atenei, impedendo altresì la formazione di un tessuto normativo barocco e farraginoso come quello con il quale il Miur inonda gli atenei italiani già da alcune decadi. Abbiamo invece ora una legge iperdettagliata che amputa ogni possibile idea di autonomia, disciplinando minuziosamente ogni minimo aspetto della vita e dell’organizzazione degli atenei, impedendo quel margine di elasticità che persino il buon senso (senza arrivare a invocare le norme costituzionali) avrebbe richiesto. Si giunge così oggi all’assurdo, per cui alcuni degli statuti approvati nel dopo-riforma vengono impugnati dal Miur dinanzi ai Tar perché, ad esempio, consentono la partecipazione dei direttori di biblioteca ai consigli di facoltà (sic!) quando sia il Miur che i giudici amministrativi avrebbero sicuramente questioni di ben altra urgenza e rilievo.

L’autonomia viene così ad essere amputata, senza fare i conti con il disegno costituzionale orientato dal principio di sussidiarietà e decentramento, a favore di una sorta di neocentralismo ministeriale che non sembra tener conto, peraltro, della profonda diversificazione all’interno del sistema universitario pubblico, caratterizzato da atenei di diversissime dimensioni. Un’autonomia che, in alcuni punti del disegno riformatore, pare destinata a dover essere contrattata col Ministero, e poi eventualmente graziosamente concessa, quasi che i principi costituzionali possano essere oggetto di negoziazione col potere politico (un pericoloso e inedito elemento che neanche la riforma Gentile aveva introdotto).

Quale sia la nozione di autonomia che il legislatore nella 240 fa propria, in effetti, non è chiaro, laddove pare che esso dimentichi che l’autonomia è funzionale alla garanzia della libertà di ricerca e di insegnamento, anch’esse costituzionalmente tutelate, e che quindi essa si dovrebbe svolgere non solo tramite la garanzia di autogoverno degli atenei, ma anche nella cd. “governance” di secondo livello (naturalmente, il termine più corretto sarebbe “government”, ma ci si arrende per brevità all’uso invalso). Si assiste invece a un’amputazione di tutte le sedi di confronto e dibattito, a una riduzione al minimo degli organi elettivi e rappresentativi delle diverse aree scientifiche e culturali, in una sorta di modello ipermaggioritario tendente a concentrare in modo abbastanza evidente tutto il potere deliberativo e di gestione delle risorse nelle mani di pochi. Al centro di tutto questo sistema, Rettori trasformati in manager e Direttori generali, ai quali i dipartimenti dovranno rivolgersi ora anche per l’acquisto delle penne, essendo stati privati dell’autonomia di spesa da uno dei primi “rivelatori” decreti attuativi.

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Visualizza la scheda del libro;

Scarica l’articolo di R. Calvano “L’autonomia universitaria stretta tra Legislatore e Giudici amministrativi”.

Roberta Calvano Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università degli studi Unitelma Sapienza

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