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Il laureato in filosofia è un teorico dei sistemi

Pubblicato il: 20/06/2011 16:39:04 -


I possibili esiti professionali per le lauree magistrali degli studenti di filosofia, il counseling filosofico e le radici della crisi della filosofia, la ricerca filosofica di Wittgenstein, la laurea magistrale in filosofia per formare teorici dei sistemi utili alle imprese chiamate a muoversi sulle strade della complessità.
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QUALE MERCATO DEL LAVORO PER I LAUREATI IN FILOSOFIA?

La filosofia sembra vivere un momento di grande fragilità all’interno del sistema universitario. Ci si chiede, infatti, quali possano essere i suoi esiti professionali al di là dell’insegnamento e della stessa ricerca universitaria, del resto esposta ai rischi della precarietà dei finanziamenti. Molte università prospettano la laurea magistrale in filosofia come proiettata, professionalmente, sulla gestione dei beni culturali e delle dinamiche proprie dell’editoria, della comunicazione, delle relazioni tra culture, religioni, dimensioni etiche. Il dato comune di questa prospettiva è che la filosofia si proietta sul mercato del lavoro già presidiato, e, forse, con maggiore specificità da altre lauree: beni culturali, scienze della comunicazione… Un caso a parte è quello del counseling filosofico, che possiamo definire come una professione d’aiuto che, in assenza di profili patologici, accompagna le persone nella soluzione dei problemi di vita, in modo da renderla più “sopportabile”, con i metodi e i contenuti tipici, innanzi tutto, della filosofia – ad esempio, Socrate, che generava la conoscenza nei suoi interlocutori grazie all’abilità di fare le domande giuste al momento giusto – ma anche della psicologia e della pedagogia. Anche qui, come si vede, la specificità della filosofia è molto diluita e, comunque, proietta lo studente in un mercato del lavoro, quello delle professioni d’aiuto, che è già abbondantemente affollato, e sovra-affollato, dagli psicologi.

ALLA RICERCA DELLE CAUSE

Mi chiedo, allora, quali siano le origini di questo smarrimento di sé che la filosofia attraversa. Per la sua tipicità lo faccio a partire proprio dalla proposta del counseling filosofico. Credo che il counseling filosofico sia l’esito ultimo e radicale della crisi della filosofia, dopo che essa si è scoperta, per esprimerci con Gianni Vattimo, “pensiero debole”. La filosofia, infatti, può solo cercare di capire se “riusciamo a vivere senza nevrosi, in un mondo in cui è venuto in chiaro che non ci sono strutture fisse, garantite, essenziali, ma solo aggiustamenti” (Gianni Vattimo, “Al di là del soggetto”, 1981). Qui Vattimo sembra addirittura tratteggiare i compiti del counselor filosofico: aiutare a vivere senza nevrosi. Il counseling filosofico – conviene ripetere: come caso forte del perdersi più vasto di una dimensione propriamente filosofica – è, insomma, la conseguenza del fatto che tutte le verità oggettive e fondanti, in ambito filosofico, religioso, morale, sono morte. Il filosofo tedesco Nietzsche lo ha annunciato verso la fine del 1800, proclamando la “morte di Dio” (“Gaia Scienza”, 1882). Il mondo pensato lungo i secoli secondo queste verità e che aveva ospitato e ascoltato la filosofia, è diventato, per dirla ancora con Nietzsche, “favola” (“Genealogia della morale”, 1887). Per questo, conclude un altro filosofo tedesco, Martin Heidegger, la filosofia deve ripensare se stessa e i propri modi di pensare secondo prospettive per molti aspetti incerte, che la avvicinano alla poesia. Una filosofia, dunque, che sembra dover rinunciare a se stessa come costruzione concettuale (Heidegger, “Hölderlin e l’essenza della poesia”, 1937).

UNA PROSPETTIVA DIVERSA È POSSIBILE

In queste note intendo avanzare un’ipotesi diversa sulla filosofia e, quindi, sulle competenze professionali del laureato in filosofia. Credo si debba partire dalle riflessioni di Wittgenstein, il filosofo che, nel pieno della crisi della filosofia che abbiamo delineato, costruisce, nei primi decenni del Novecento, un sistema che fa della crisi il proprio codice genetico. Quanto dirò è, infatti, una sintesi di quanto Wittgenstein scrive soprattutto nelle “Ricerche filosofiche” (1945-1949) e nelle “Osservazioni sopra i fondamenti della matematica” (1937-1944).

Tutti i saperi – dalla matematica, all’etica, alle diverse arti, alle credenze religiose – in quanto hanno una dimensione pubblica, sono dei linguaggi. In quanto saperi privi di fondamento, sono dei “giochi linguistici”. Il termine “ gioco” indica proprio questa infondatezza. I saperi/linguaggi sono, come tutti i giochi, pure convenzioni, che non presuppongono verità assolute e che trovano senso solo se ne vengono rispettate le regole specifiche, diverse dalla regole degli altri giochi. Cambiare le regole di un gioco significa creare un altro gioco. Non è possibile trovare una ragione “profonda” che giustifichi quelle regole: semplicemente quello è il gioco e quelle sono le sue regole. Se si vuole giocarlo, bisogna giocarlo in quel modo. Wittgenstein, dunque, mostra la permanente possibilità della filosofia di proporsi come teoria dei sistemi. La filosofia è capace di costruire sistemi anche nelle situazioni di più elevata criticità, progettarli come pluralità dei modi di espressione-comprensione-governo della realtà, in tutte le sue articolazioni, è in grado di evolvere e co-evolvere, avendo in comune il fatto di appartenere tutti alla comunità dei parlanti, nella diversità degli elementi costitutivi e delle regole di funzionamento.

DALLA FILOSOFIA DI WITTGENSTEIN AL LAUREATO IN FILOSOFIA COME MANAGER

I mental models e le cognitive maps della filosofia sono le competenze che oggi molte organizzazioni cercano nei propri manager. Un manager deve, infatti, essere capace di:
• immaginare, avere una vision, un sogno, che gli permetta di costruire il futuro (A.F. De Toni, “Visione evolutiva”, 2010, p. 5-56 ), come i giochi consentono di interpretare e governare la complessità del reale;
• creare, coltivare, cambiare, innovare, sviluppare le organizzazioni secondo la pluralità e la complessità, così come conoscono la pluralità e la complessità i giochi linguistici: alle imprese tradizionali, gerarchiche e centralizzate, “fordiste”, si affiancano sempre di più imprese con modelli organizzativi diversi, sempre più dinamici, decentrati, flessibili, capaci di crescere e trasformarsi. Oggi le organizzazioni di successo sono, tra l’altro: a rete, a matrice, a frattale, circolari, olografiche, cellulari, oloniche. Derivano i propri modelli organizzativi dalla matematica, dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia evolutiva (A. F. De Toni, “Auto-organizzazioni”, 2011, pp. 206-233);
• avere consapevolezza olistica della propria organizzazione: il manager deve saper vedere l’elefante, il sistema dei giochi, e non pensare, come i sei ciechi, che le orecchie siano dei ventagli, la proboscide un serpente, la zampa un albero, la coda una fune, la groppa un muro, guardando solo a uno solo per volta dei giochi (A. F. De Toni, “Auto-organizzazioni”, p. 198);
• avere capacità di pensare e governare la crisi e il cambiamento emergente (De Toni, “Visione evolutiva”, pp. 150-151), come la teoria dei giochi “salva, a suo modo, i saperi nella burrasca delle crisi della filosofia”.

Questa evidenziazione delle competenze del laureato in filosofia come manager dei sistemi a partire dalle competenze della filosofia stessa, si fonda sul fatto, già evidenziato dallo psicologo svizzero Jean Piaget (“Le scienze dell’uomo”, 1970, pp. 85.199), che i modi con i quali si forma la mente delle persone – scienziati, matematici, filosofi… – sono per molti aspetti simili ai modi con i quali si forma la “mente” dei saperi come sistemi – scienze, matematica, filosofia… – sempre più ampi e complessi di coloro che, in modi inevitabilmente provvisori e frammentari, li abitano e li producono.

LE PROSPETTIVE

Possiamo articolare queste osservazioni conclusive sulle “Prospettive” di quanto abbiamo detto su due piani:
• il primo utile a concludere il discorso sulla filosofia
• il secondo utile ad allargare le prospettive a questioni formative più ampie.

Per quanto riguarda il primo punto la conclusione può essere questa. Le prospettive di studio e professionali per gli studenti di filosofia in questo modo si allargano, proprio a partire dalla specificità dell’intelligenza filosofica. Raccolgono così la sfida dell’attenzione crescente che le aziende le riservano (Myriam Giangiacomo, “Organizzazione complesse e filosofia: un nuovo bisogno?”, in Persone & Conoscenze, Milano 40/2008, pp. 50).

Per quanto riguarda il secondo punto, mi sembra evidente che, ancora una volta, la formazione deve muoversi su due livelli:
• formare padronanze,
• formare competenze, come mental models e cognitive maps.

Formare padronanze significa formare le conoscenze in modo tale da poter essere usate e trasferite in ambiti plurali e diversi. Nel nostro caso, allo studente di filosofia non basta conoscere la storia della filosofia, deve saper rendere le filosofie che ha studiato modelli interpretativi e risolutivi dei problemi organizzativi delle aziende. Formare mental models e cognitive maps significa formare modi di interpretare la realtà che si formano nella elaborazione dei concetti tipici di ogni disciplina e che, tuttavia, diventano indipendenti dalla disciplina stessa. Lo studente di filosofia, per esempio, può condividere il proprio approccio sistemico con lo studente di fisica, di matematica, di biologia evolutiva (H. Gardner, “Formae Mentis”, 1987, pp. 148 ss. ).

Mi sembrano questioni interessanti, sia per l’organizzazione degli studi universitari sia per la definizione delle strategie di orientamento professionale.

Eugenio Bastianon

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