La universitaria
Una nuova deve essere adeguata alle nuove missioni affidate alle Università ma deve anche salvaguardare gli aspetti positivi di quella tradizionale, che si esprime nella collegialità decisionale della libera comunità universitaria.
Nel 2009 si compiono vent’anni dalla legge Ruberti sull’autonomia universitaria e dieci dalla riforma Berlinguer-Zecchino. Si è finalmente compiuta la transizione dall’università riservata alla formazione di ristrette classi dirigenti a quella aperta a sempre più ampie generazioni di giovani. L’Italia, ultima in Unione Europea quanto a percentuale di laureati nella classe d’età 25-64 anni e terzultima nella classe 25-34, sale al settimo posto per l’anno 2006. Sono i primi segni di un’inversione positiva di tendenza dovuta alle riforme. Anche la ricerca universitaria si è trasformata: gruppi ampi e interdisciplinari di ricercatori competono duramente a livello nazionale e internazionale per l’accesso ai finanziamenti. L’Italia, che destina alle università e alla ricerca le quote di PIL più basse d’Europa, risulta essere la quarta quanto a qualità dei risultati scientifici (in base alle analisi di D.A. King).
Non mancano però le ombre: autoreferenzialità spiccata, concorrenza al ribasso, deresponsabilizzazione gestionale. Una delle cause fu subito individuata nella mancata riforma delle forme e procedure di governo (la cosiddetta governance). Anche se la governance di sistema riveste grande importanza (ruolo del ministero, agenzia di valutazione, criteri di finanziamento etc.) mi limito qui a quella di ateneo.
Università autonome che competono tra loro nel “mercato” nazionale e internazionale della formazione e della ricerca hanno bisogno di un governo interno che sia efficiente ed efficace, flessibile e pronto. Un governo autorevole che tracci le strategie e persegua gli obiettivi dell’ateneo come istituzione (piuttosto che agire come istanza “federativa” tra i diversi ambiti disciplinari) e che sappia realizzare una sintesi glocal tra il ruolo da giocare nel sistema universitario internazionale e quello di importante attore sociale territoriale nella società della conoscenza.
Una nuova governance deve essere adeguata a queste nuove missioni ma deve anche salvaguardare gli aspetti positivi di quella tradizionale che si esprime nella collegialità decisionale della libera comunità universitaria. Il compito non è facile ed è illusorio pensare che basti cambiare la natura giuridica dell’istituzione (trasformandola in fondazione) o imitare modelli aziendalistici inadatti a un’università pubblica.
Le caratteristiche negative del modello tradizionale sono pervasive. La sovrapposizione di competenze a livello di organi centrali e di articolazioni interne rende impacciata la gestione e sfuggente la responsabilità delle scelte. L’onnipresenza di forme di democrazia diretta, di rappresentanze per categorie e di cascate gerarchiche di pareri causano un enorme spreco di tempo e di energie nella formazione della decisione e offrono spazi eccessivi all’interdizione.
Una riforma della governance deve eliminarle e inoltre, in un’ottica di autonomia e responsabilità crescenti, deve limitarsi a fornire obiettivi generali comuni alle università, lasciando libertà di sperimentazione di modelli differenti di governance in corrispondenza con le loro diverse nature e strategie.
Provo a esemplificare brevemente due obiettivi. Il potere “esecutivo” di chi prende le decisioni di governo dell’ateneo deve essere separato dal potere “legislativo” di chi approva statuto e regolamenti, detta gli indirizzi culturali, garantisce i diritti e i doveri dei docenti e degli studenti, valuta i risultati. Il primo dovrebbe essere affidato al rettore e al consiglio di amministrazione, il secondo al senato accademico. Si manterrebbe la natura elettiva del rettore (con un limite alla durata della carica) perché è importante che l’intera comunità universitaria, tradizionalmente poco incline a forme di identificazione e strutturalmente inadatta a gerarchie di ufficio, si riconosca istituzionalmente in un vertice democraticamente eletto. Naturalmente sarebbe elettivo anche il senato accademico, meglio se con elezione diretta per ridurre l’effetto di organo federativo delle facoltà. Invece il consiglio di amministrazione sarebbe frutto per metà di nomina del rettore e per metà di nomina del senato accademico, obbligandovi comunque la presenza di rappresentanze degli studenti e di alte competenze esterne all’università. Al senato accademico spetterebbe di esprimere il voto di fiducia al consiglio di amministrazione e, con maggioranza qualificata, di poter sfiduciare insieme rettore e consiglio di amministrazione.
Deve essere inoltre delegificata l’articolazione interna dell’ateneo (facoltà, dipartimenti, corsi di studio etc.) lasciando alle autonome le scelte statutarie, purché siano rispettati due principi. Il primo è che la strutturazione interna deve ridare unitarietà ai due compiti accademici fondamentali in modo che ciascun docente partecipi una sola volta ai processi decisionali che riguardano la didattica e la ricerca di sua competenza. Il secondo è che a questo stesso livello organizzativo unitario deve essere garantita una reale autonomia gestionale in modo che nessuna decisione debba essere confermata a livelli più alti di quelli su cui opera.
Certo è inutile parlare di riforme della governance in un sistema universitario che è drammaticamente a corto di risorse rispetto ai partner europei e su cui per giunta pende la ghigliottina dei pesanti tagli governativi ai fondi di funzionamento che scatteranno nel 2010. Ma un nuovo patto tra società e università che preveda seri investimenti in formazione e ricerca richiede necessariamente nuove forme e procedure di governo del sistema universitario e degli atenei.
Luciano Modica