Tutti gli uomini tendono alla conoscenza per natura
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“Pantes anthropoi tou eidenai orégontai fysei”, ovvero “Tutti gli uomini tendono alla conoscenza per natura”. È la frase che apre “La Metafisica” di Aristotele.
La comunità scientifica ha assunto come forma mentis, modernamente, l’assioma che la conoscenza si diffonda attraverso la pubblicazione. È interessante su questo svolgere alcune considerazioni storiche. Non è stato infatti sempre così. Le prime scuole, nell’antica cultura ellenica, distinguevano rigorosamente tra ciò che poteva essere divulgato all’esterno e ciò che, viceversa, era rigorosamente riservato agli adepti. Casi paradigmatici sono le scuole pitagoriche, ma la stessa impronta si ritrova nella tradizione del Liceo, tanto è vero che le opere dello stesso Aristotele erano suddivise in essoteriche ed esoteriche o acroamatiche. Entro una visione fortemente aristocratica della cultura, la tesi fondante era dunque quella che non è bene che tutti sappiano tutto.
Questa mentalità non muta all’insorgere dell’età moderna. Basterà pensare alle teorie dei rosacrociani, cui anche altissimi intelletti aderirono. È bene notare che questo atteggiamento non è relativo ad uno specifico settore della cultura, ma vale per tutte le scienze in generale, persino per quella che appare fra tutte la più neutrale, la matematica. Basti ripensare alla complessa vicenda della scoperta del metodo risolutivo per le equazioni di terzo grado: gli algebristi che pervennero alla scoperta ne difesero la segretezza il più a lungo possibile. Il dotto era colui che vince le “tenzoni”, cioè sa risolvere i problemi che l’antagonista gli propone, mentre non si dà il viceversa. Così una formula risolutiva diviene un’arma vincente, e va il più possibile tenuta per se stessi. Entro questa lettura non può non venire in mente il caso del sommo Gauss, che reagì alla scoperta delle geometrie non euclidee affermando che quelle cose le sapeva già; e alla domanda del perché non le avesse diffuse, rispose con il celebre: “Per evitare le strida dei beoti”.
Solo a partire dal ‘600 nascono le prime “riviste scientifiche”: il Journal des Savantes, i Proceeedings della Royal Society, gli Acta Eruditorum. E tuttavia le tesi più innovative e più ardite spesso non prendono questa via, ma quell’altra, dell’epistolario privato. E quest’ultimo assume spesso il carattere formale di ciò che è riconosciuto da una comunità scientifica estremamente ristretta; tanto è vero che i grandi scienziati non si scrivono direttamente, ma comunicano attraverso il segretariato ufficiale delle accademie, che espleta la funzione notarile del copyright. La diffusione delle idee coinvolge una ristrettissima cerchia di persone, quelle che possono capire e capirsi. Si pensi ad esempio al lavorio intellettuale che accompagna la scoperta del calcolo infinitesimale, con le lettere, spesso veri e propri saggi, che si scambiano pensatori come Newton, Leibniz, i Bernoulli, Oldenburg e pochissimi altri. Forse dieci, o poco più, persone in tutto il mondo.
La situazione moderna è radicalmente mutata, almeno per certi aspetti. Oggi troviamo naturale correre alla pubblicazione di una scoperta il prima possibile, per accaparrarcene la paternità. Questo vale, almeno, nel contesto accademico. In quello industriale valgono altre regole, anche se molti soloni delle politiche della ricerca sembrano ignorarlo. Ma di ciò in altra occasione.
A malgrado di questa evoluzione positiva, sono ancora molte le barriere che si ergono a contrastare la diffusione della conoscenza. Le difficoltà che si frappongo all’accesso alla pubblicazione delle proprie idee sono di molti tipi. La prima è senza dubbio di natura economica. In una società che ha eretto il dio mercato a giudice supremo del bene e del male, quale spazio possono trovare scritti che necessariamente, proprio in quanto culturalmente validi, hanno per loro natura carattere elitario? Entro l’asfittico panorama dell’editoria italiana, che in larga misura sopravvive esclusivamente in forza delle adozioni scolastiche e delle agevolazioni pubbliche, per la maggior parte degli scritti specialistici “non c’è mercato”. Persino le monografie di media divulgazione trovano tirature modeste, e sono quindi, a priori, operazioni in perdita. La conclusione è che gli scritti accademici vengono pubblicati se e in quanto sia l’accademia stessa a finanziare l’operazione.
Questo naturalmente comporta una serie di conseguenze molto pericolose. In primis, con i tagli draconiani ai fondi per la ricerca, le risorse a disposizione sono ridotte al lumicino. In secondo luogo, questo tipo di canale ha una apertura direttamente proporzionale al potere accademico, e non al valore intrinseco dello scritto. È facile capire che la situazione è particolarmente problematica proprio per i più giovani, che viceversa sono coloro che hanno la più alta esigenza di accedere all’editoria. Infine, in terzo luogo, but not least, la disponibilità di fondi può tranquillamente scavalcare qualsiasi giudizio di merito della comunità scientifica: se uno ha i fondi sufficienti, e “paga” in proprio, chi gli può impedire di pubblicare qualsiasi cosa? E, d’altra parte, quale editore rifiuterebbe una operazione a costo zero e con qualche probabilità di guadagno? Una certa circolazione di pubblicazioni mediocri, e a volte peggio, diviene quindi fisiologica entro il sistema.
Oltre che lungo la direzione dall’autore al fruitore, il processo va analizzato anche nella direzione inversa. Lo studioso che vuole informarsi, cioè accedere alla conoscenza da fruitore, incontra i problemi speculari a quelli detti. In primo luogo, il vincolo economico. I libri costano. Le biblioteche universitarie, grazie alla genialità delle riforme epocali di cui la classe politica gratifica assiduamente il mondo della ricerca, comprano ormai con il contagocce; dismettono collane, disdicono abbonamenti alle riviste, e così via. Sarebbe interessante che si avessero delle stime di questo fenomeno, e si mettesse in assi cartesiani l’andamento delle acquisizioni nel tempo recente. Naturalmente anche qui la sofferenza maggiore è inflitta ai più deboli, cioè a chi ha scarsa disponibilità di risorse, tra gli studenti in primis. Il fenomeno è attenuato dalla enorme disponibilità di informazione online, in forma digitale; ma anche qui va detto che, frequentemente, l’accesso alle fonti digitali è a pagamento, e dunque vale lo stesso discorso.
A questo si aggiunge il monopolio esercitato di fatto da alcuni grandi editori stranieri nel campo delle così dette “scienze dure”. Secondo quanto scrive G. Monbiot su The Guardian, vi sono tre editori che detengono il 42% del mercato mondiale delle riviste scientifiche. Editori che fanno il bello e il cattivo tempo, dunque, avocando a sé la decisione finale della validazione scientifica delle pubblicazioni, ben oltre e ben più di ogni competenza scientifica. Dal punto di vista del mercato, dunque, mentre il numero delle riviste specializzate aumenta vistosamente, anche per la sempre maggiore specializzazione del sapere scientifico, diminuiscono invece gli abbonati alle stesse, il che comporta un costante incremento dei costi. Di fatto, l’informazione si sta sempre più trasformando in un lusso, precluso a priori a certi strati sociali e ad ampie zone geografiche, a cominciare ovviamente da quelle del terzo mondo.
Portando questo processo al suo limite naturale, appare del tutto evidente l’inversione di quella tendenza che ha caratterizzato la modernità rispetto al Medioevo.
Di fatto, affidando la selezione dell’editoria al mercato, la società moderna ha rinunciato ad ogni giudizio di valore, e instaurato un regime premiale basato su parametri come la facile fruibilità, ma, soprattutto, come lo strapotere esercitato dalle forze di marketing e dall’apparato pubblicitario dei grandi editori. Un pessimo romanzo inserito in una collana di successo di un editore di riferimento per il mercato venderà comunque qualche migliaio di copie, mentre un capolavoro letterario pubblicato da un editore marginale otterrà una tiratura di quel centinaio di copie che l’autore stesso in qualche forma paga, e passerà nella totale indifferenza del buio perenne. Che questo valesse e valga in generale, e in specifico per la narrativa, non può essere ignorato da nessuno; ma che processi sostanzialmente analoghi si stiano instaurando anche per l’editoria scientifica è fenomeno che si sta acuendo fortemente, e non è difficile capire quali devastanti conseguenze possa comportare sul piano della diffusione, dello sviluppo e della trasmissione del sapere.
È forse venuto il momento di ripensare alle radici il sistema portante che domina questo panorama, e cioè quello che potremmo etichettare come “copyright”. L’assunto fondante del nostro sistema si basa sulla convivenza di due tutele, quella morale della proprietà intellettuale, assunta come inalienabile, e quella dello sfruttamento economico, che viene mercificata, e quindi assoggettata al regime economico come qualsiasi altra merce. Questi due livelli sono pertanto, se pure coesistenti, completamente smarcati l’uno dall’altro.
La conseguenza pratica è che la pubblicazione di un importante teorema di matematica non potrà mai essere concorrenziale, sul piano del valore assunto dalla nostra società, rispetto a un romanzetto pornografico, fosse pure scritto nel più sgangherato dei modi. Forse qualcosa non quadra, almeno rispetto all’idea di progresso che ancora qualcuno coltiva in un inconfessabile privato.
Vi sono alternative praticabili al sistema così come delineato? Vorrei accennare brevemente a una visione sulla quale, a mio parere, la comunità scientifica non ha ancora riflettuto a sufficienza. Per spiegarla, è necessario fare un sintetico excursus sul tema della pirateria informatica. Come è noto, la cosa è di grande attualità, per molte ragioni, non ultima l’inadeguatezza degli ordinamenti giuridici, concepiti ben prima dell’insorgenza delle modalità e dei processi che le nuove tecnologie hanno introdotto. Possiamo suddividere chi pratica la pirateria informatica, grossolanamente, in due tipologie. Il primo idealtipo è quello del così detto cracker. Il cracker non accetta la protezione dei sistemi informatici, e usa strumenti tecnici per rimuoverle o aggirarle. Il suo intento è di solito di natura economica, e la sua finalità è spesso il sabotaggio. A volte l’atteggiamento è improntato a forme assimilabili al luddismo, cioè alla distruzione; ma, molto più spesso, dietro l’azione si celano finalità di spionaggio industriale, o di lucro individuale, o di danneggiamento dei competitori.
La seconda tipologia di attore è costituita dall’hacker. Spesso il confine con il primo tipo è reso labile dalla condivisione degli strumenti. Tuttavia la filosofia retrostante è completamente diversa. L’assunto degli hackers si può condensare in una precisa formulazione: ogni sapere, ogni informazione, ogni verità devono essere accessibili a tutti. Nulla va nascosto a qualcuno. A partire da questa filosofia, si usa poi distinguere due sottocategorie, nel gergo gli hat white hackers e i black hat hacker, quelli dal cappello bianco e quelli dal cappello nero. Per questi ultimi, l’assunto prima esposto va perseguito a qualsiasi costo, anche a danno di terzi; per gli altri, viceversa, il diritto all’accesso all’informazione va perseguito in ogni modo, purché non provochi danni a terzi. In questo contesto si parla così di “ethical hacking”. Poiché questa materia è a mio parere poco nota, e spesso è divulgata in modo confuso dai media, cercherò di renderla più chiara esemplificando. Un cracker può, ad esempio, violare un sistema informatico e impossessarsi di informazioni riservate per lucro, o magari semplicemente può sabotare la home page di un ente che odia sostituendone i contenti con frasi oltraggiose; un hacker “nero” potrà decidere di accedere a un articolo che è distribuito solo a pagamento violandone la protezione, e questo anche a costo di danneggiare il sistema di protezione, per esempio cancellando dei file, o vanificando il sistema di retribuzione in quanto l’articolo diventi di pubblico dominio; infine, un hacker “bianco” potrà carpire una informazione per suo uso esclusivo, e senza alterare o danneggiare il sistema violato. Su quest’ultimo caso si è molto parlato, e anche in sede giuridica, in riferimento al fenomeno del download e alla fruizione di musica e filmati.
Non è questo il luogo di affrontare la questione nei suoi termini giuridici. A scanso di equivoci, non si vuole nemmeno, qui, sostenere, favorire o giustificare un qualsiasi comportamento illegale. Ma si può, in sede di riflessione filosofica, cioè ad un meta-livello, e forse si deve, valutare se e come le leggi vigenti vadano eventualmente ripensate e modificate. Forse una forma controllata di ethical hacking potrebbe contribuire ad affrontare quel tragico panorama che si è descritto all’inizio. La conoscenza ha un tratto che è irriconducibile alla merce ileticamente intesa: il suo trasferimento non comporta la privazione della stessa da parte dell’emittente. Se io so che Napoleone è nato ad Ajaccio, e lo dico a un mio studente, dopo lo sa anche lui, ma non per questo io smetto di saperlo; se invece gli do un libro, in cui c’è scritto che Napoleone è nato ad Ajaccio, dopo io ne sono privo. Altro dunque è il libro, altro quanto in esso sta scritto. Forse questa diversità meriterebbe una riflessione profonda.
Maurizio Matteuzzi