Sulla valutazione…
“Quod non vetat lex, hoc vetat fieri pudor” (Seneca). Quello che non vietano le leggi, lo vieta il pudore.
La valutazione è l’esercizio di un potere: consiste nello stabilire il valore di un’azione. È, quindi, senza dubbio, un giudizio di merito: un atto di giustizia (o di ingiustizia).
Giudicare male è conseguenza di una gravissima azione educativa. Un giudizio ‘ingiusto’ significa misconoscere un valore e pertanto indurre la valutazione speculare su chi ha mal esercitato il suo potere. Per uno studente è l’ennesima dimostrazione che “non c’è giustizia” e che in questa società la “certezza del diritto” è una mistificazione del potere che invece persegue cinicamente i suoi fini. L’aggravante sta nel fatto che questo “giudizio di valore” sullo studente è sancito dall’unico potere reale presente in una scuola: il consiglio di classe (collegio, non a caso, definito perfetto). Aggravante perché l’ingiustizia (quando è palese) viene esercitata da un organismo democratico. Aggiungo, l’unico potere reale perché l’unico potere con funzioni altamente educative: l’educazione, in questo spaccato della vita scolastica, si misura sulla grande responsabile nel delicatissimo esercizio della valutazione.
La valutazione è costituita da due ingredienti essenziali: un giudizio ed un voto. Il giudizio precede sempre il voto. Il voto è una “rappresentazione sintetica” del giudizio, laddove il giudizio è un complesso ricco ed articolato di considerazioni costitutive di una valutazione sistemica della personalità nei comportamenti, del percorso didattico – educativo e dell’apprendimento cognitivo e meta-cognitivo.
Inoltre, è significativo il fatto che il voto è un voto dell’organo collegiale e non del singolo docente. Quest’ultimo propone, il consiglio di classe dispone perché il docente propone la propria “misura relazionale” e cioè relativamente a quelle (almeno) tre componenti della valutazione sistemica di cui sopra. La valutazione “complessiva”, completa di tutte le componenti necessarie e sufficienti ad un giudizio, è data esclusivamente dal Consiglio di Classe (il collegio perfetto) che tiene conto dei “pesi relativi” delle “misure” di ogni membro del collegio. Consegue, quindi, che il voto non può e non deve essere una media aritmetica, non può e non deve produrre numeri “decimali” dovendo pesare diverse componenti.
Pertanto, il voto (inteso come valutazione collegiale, deve e non può non essere che un numero (intero) da 1 a 10 [escludere i decimali significa escludere una media aritmetica] per l’incommensurabilità dei “pesi relativi”. Altro tema controverso, quello della media aritmetica. Come è a tutti noto, o dovrebbe, la media esiste di molte tipologie a seconda della distribuzione statistica utilizzata. Ma per chi poco si orienta nel settore, basterà ricordare l’esistenza della media pesata, forse più affine al comportamento di un Consiglio. Comunque, il rigore della norma comporta l’uso solamente di numeri interi, quindi nonostante i vari software disponibili (pacchetti software di segreteria come Axios), le medie sarebbero vietate. E sostenere che siano indicative è inutile perché inducono complesse alterazioni di giudizio (vedi anche prossimi contributi, ma per anticipare: che peso dare all’istruzione ‘non formale’ o all’alternanza scuola lavoro?).
Seconda riflessione. Il voto è un numero (intero) da 1 a 10. La scala è decimale.
La valutazione numerica è sempre intesa in “senso relativo” significando che il valore attribuito come voto ha senso solamente se riferito ad una scala numerica definita, un intervallo numerico con un valore minimo ed un valore massimo. A questo proposito, per chiarire meglio il senso del dettame legislativo, si procede ad una esemplificazione: se si usasse un intervallo numerico da 3 a 8 (come spesso si fa per costume) allora non sarebbe un voto in decimi perchè l’8 (valore massimo di questa scala frequentemente utilizzata) corrisponderebbe in decimi [(10-0)/(8-3)=x/8] a 16 e cioè esattamente al doppio (e fuori scala).
La beffa è che l’alunno valutato otto su questa scala “ridotta” dal mal costume (rispetto alla norma, ovviamente) finisce con il vedersi attribuito, in sede di scrutinio, la penultima fascia del credito perché con una media non superiore ad otto: la conseguenza è che l’eccellenza cumula una “difficoltà” in più all’Esame di Stato con il rischio reale di non poter raggiungere la massima valutazione mentre il mediocre è sopravvalutato (il suo 3 sulla scala ridotta corrisponde a 6 nella scala decimale, e come tutti sanno è altamente probabile che queste persone attraverso debiti e recuperi finiscano per ottenerlo) tanto da poter superare l’esame senza difficoltà alcuna e pago di un risultato altrimenti insperato. Siamo disgustati dallo scendere dei livelli di apprendimento (formalizzati dai contenuti degli assi dell’obbligo) ma non da questo mostruoso e violento sistema di valutazione a maglie così larghe da lasciar passare senza difficoltà la più truce ignoranza a danno di coloro che a prescindere dalle soglie si impegnano comunque quotidianamente considerando lo studio non un impegno ma un valore della propria esistenza.
Allora credo sia opportuno che “quod non vetat lex, hoc vetat fieri pudor” al fine di proteggere le eccellenze, pur lasciando a chi si insinua nella tolleranza della maglia larga quel gratuito beneficio, causa del proprio danno futuro.
La legge non vieta l’attribuzione del 10. Eppure, oggi, l’arroganza dell’istruzione ‘formale’ vorrebbe che una valutazione “reale” non possa mai, per pudore intellettuale, attribuire un 10 proprio per quanto stabilito dai terribili dati OCSE-PISA. A livelli di ignoranza tanto bassi non si potrà mai attribuire un 10 perché anche le presunte eccellenze seguono, comunque, l’abbassamento medio dei livelli (insomma un’eccellenza di oggi non vale quanto un’eccellenza di 20 0 40 anni fa). Questo è pre-giudizio! Pregiudizio radicato nella vecchia compagine di una cultura fondata esclusivamente sull’istruzione formale. Ma ciò è superato di gran lunga dagli eventi che attraverso i libri bianchi di Delors, Cresson, e tant’altri da Faure in poi, fino a “Analfabetismo: il punto di non ritorno” (dell’autore), hanno mostrato quanto foriera di innovazione sia la cultura ‘aperta’ all’istruzione informale e non formale.
Ed è proprio per questo, per il sostanziale “relativismo della cultura tradizionale” fondata su un’istruzione ortodossa che io credo ad una lettura della citazione di Seneca tanto appropriata quanto apodittica. Infatti, considerata nell’immenso contesto della valutazione, sarebbe opportuno associare la lex alle eccellenze ed il pudor alla diffusione indiscriminata della mediocrità e, cioè, non significando che “la legge non vieta l’attribuzione del 10 e allora sia vietato dal pudore”, come vorrebbero gli attuali e veri “cattivi maestri”, ma che “la legge non vieta l’attribuzione del 10, quindi se il pudore dovesse vietare il 10 allora che non permetta la metamorfosi di un 3 in un 6”.
La cultura “aperta”, definita più sopra, tende alla riscoperta di un’istruzione che passi da una cultura chiusa, fatta di schemi rigidamente ingabbiati nella necessità di trasmettere contenuti e messaggi, alla vera e ‘dimenticata’ azione dell’in-strùere, alla cultura del costruire e del creare. Apprendere costruendo e non assimilando passivamente, apprendere creando le soluzioni invece che accettarle come uniche e senza via d’uscita. È anacronistico e, per l’appunto, assolutamente incredibile che i vecchi Regi Decreti, non ancora superati (nonostante la Legge 169/08 e il DPR 122/09 che, in sostanza, ripropongono gli stessi criteri) e quindi ancora in pieno vigore, stabiliscano che con la stessa scala di valore devono (dovrebbero) essere valutati i compiti assegnati a casa. Si ponga attenzione che intanto esisteva un valore significativo che si dava al compito a casa, fonte di istruzione e apprendimento, ed, inoltre, il valore era ponderato dalla stessa scala, quindi, con la stessa valenza del compito scritto o dell’interrogazione in classe. Si direbbe: “altri tempi”, si aggiungerebbe: “che nostalgia”; i salti in avanti della grande Europa erano già (in)scritti (ovviamente in nuce) in vecchi Regi decreti.
Non è sensato e, soprattutto fondato, disquisire su un ‘giusto apprendere’ (‘livelli giusti’, livelli idonei) senza una rigorosissima assunzione di responsabilità su una ‘giusta valutazione’ che è tanto fondata quanto aperta tanto più è fondata sulla cultura dell’in-strùere.
Una lettura attenta dei Regi decreti comporta l’esplorazione di una significazione profonda ed altamente qualitativa che porterebbe luce l’eventuale innovazione della normativa successiva.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
• Art. 79, 80 – Regio decreto 653/1925
• Art. 2 – Regio decreto 2049/1929
• C.M. 451/1967 (il collegio perfetto)
• Art. 3 – DPR 416/74 e Art. 5 (co. 1 e co. 7) – TU 297/94
• Art. 11 – DPR 323/98 (introduzione dei “crediti scolastici” e della valutazione formativa)
• Esami di Stato Legge n. 1/07 e O.M. 92/07 con l’introduzione della “valutazione complessiva”
• Legge 137/08 “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”
• Legge 30 ottobre 2008, n. 169 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1º settembre 2008, n.137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 256 del 31 ottobre 2008
• D.P.R. 22 giugno 2009 , n. 122 – Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto-legge 1° settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169. (09G0130)
Arturo Marcello Allega