Programmare per le competenze
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Dal convegno di Gubbio “Programmare, valutare e certificare per competenze” del 24 marzo 2011 (evento di formazione per dirigenti scolastici e docenti), la sintesi della relazione del professor Maurizio Tiriticco.
Il nostro sistema di istruzione ha subito profonde modifiche nel corso di questi nostri 150 anni di storia patria. Quando demmo vita per la prima volta a una scuola elementare generalizzata su tutto il territorio del Regno, per altro obbligatoria per i primi due anni, la prima preoccupazione fu quella di insegnare il minimo delle abilità di base linguistiche e matematiche perché i nostri cittadini, da secoli esclusi da ogni forma di istruzione generalizzata e assolutamente analfabeti, acquisissero il minimo degli strumenti culturali per accedere al mondo del lavoro e a un contesto sociopolitico ormai ben diverso rispetto a quello ereditato nei secoli. In quel tipo di scuola non si andava troppo per il sottile e i colpi di bacchetta sulle mani erano all’ordine del giorno. In altri termini, ciò che si insegnava doveva essere appreso e anche al più presto, e la memoria faceva aggio sulle conoscenze apprese. Per decenni il nostro sistema scolastico fu essenzialmente centrato sulla acquisizione di conoscenze e la valutazione decimale era funzionale a questo modello di insegnamento: chi sa, va avanti, chi non sa è sonoramente bocciato. Il lavoro manuale non mancava e forse un’attenzione scrupolosa nei confronti dell’alunno, delle sue motivazioni, dei suoi ritmi e stili di apprendimento sarebbe stato un inutile dispendio di energie. Ciò che la ricerca pedagogica allora suggeriva solo raramente diventava riferimento certo nella pratica scolastica.
Con il trascorre degli anni, anzi dei decenni, le cose sono andate cambiando profondamente. Un benessere più diffuso tra le due guerre e poi, dopo la funesta parentesi del fascismo e della seconda guerra mondiale, l’avvio di una reale e partecipata democrazia, il boom economico degli anni Cinquanta hanno provocato anche una forte domanda di cultura e di scuola. Nel 1962 venne innalzato l’obbligo di istruzione e nel giro di pochi anni la nostra scuola media unificata venne letteralmente invasa da migliaia di undicenni bisognosi di sapere, sostenuti anche di famiglie che per la prima volta nella storia cominciavano ad avvertire il valore della scuola e della cultura come fattori di riscatto sociale.
La scuola, percome da sempre era organizzata, non fu in grado di rispondere immediatamente a questi nuovi bisogni e fu salutare l’intervento di Don Lorenzo Milani che nel ’67, con la sua Lettera a una professoressa, denunciò come e perché la scuola tradizionale, arroccata su una didattica fondata sulla erogazione di contenuti e la trasmissione di conoscenze, non sarebbe mai stata in grado di dare risposte adeguate ad una domanda di istruzione che si faceva sempre più massiccia e mirata. In quegli anni il contributo della ricerca pedagogica, o meglio di tutte le cosiddette scienze dell’educazione, fu salutare e comprendemmo che non erano tanto importanti le conoscenza acquisite, quanto il loro uso corretto da parte degli alunni nella vita di tutti i giorni. Centrammo allora l’attenzione sulle abilità, sui saper fare minimi e adottammo una nuova strategia dell’insegnare/apprendere, quella della programmazione educativa e didattica. Divenne fondamentale che l’alunno raggiungesse determinati obiettivi operativi, per i quali le conoscenze erano senz’altro fondamentali, ma non nei loro repertori contenutistici ereditati dalla scuola del passato. La didattica per obiettivi comportava anche un’altra scelta in campo valutativo, per cui venne adottata la cosiddetta valutazione di criterio, che teneva conto non tanto delle conoscenze memorizzate quanto del loro uso e corretto nelle abilità, o meglio nelle quotidiane attività pratiche. E con la legge 517 del ’77 vennero, appunto abolite le pagelle e i voti e sostituite con le schede di valutazione e i giudizi. Purtroppo l’innovazione riguardò solo la scuola dell’obbligo ed interessò solo marginalmente la scuola secondaria superiore solo in forza di una serie di sperimentazioni.
Da allora sono passati quasi quarant’anni, il processo di scolarizzazione si è esteso e per certi versi consolidato, anche se le sacche di abbandoni nel nostro Paese sono ancora molto alte. Siamo entrati in un rapporto diretto con i sistemi di istruzione di altri Paesi europei che, ormai, dopo la creazione dell’Unione europea, a partire dagli anni Novanta, ci sono più vicini che mai. Si sta ricercando un rapporto sempre più marcato tra istruzione e lavoro e ci si rende sempre più conto che conoscenze e abilità non possono più costituire gi obiettivi finali dei sistemi di istruzione. Una volta le tappe della vita di ciascuno di noi erano ben marcate: c’era l’età della scuola, poi quella del lavoro, poi quella della pensione. Oggi non è più così: siamo tenuti ad apprendere per tutta la vita perché le conoscenze aumentano giorno dopo giorno, investono i processi lavorativi ed impongono a ciascuno di noi un continuo aggiornamento di quanto abbiamo imparato. Le tre tappe si sono confuse e la scuola è così chiamata a compiere un successivo salto in avanti, se non vuole essere tagliata fuori dal mondo delle conoscenze, che si fanno sempre più numerose, e dal mondo del lavoro, che diventa sempre più difficile e impegnativo. È per queste ragioni che la scuola è chiamata a compiere un terzo passo, oltre le conoscenze, oltre le abilità, per raggiungere un terreno ancora più concreto ed impegnativo, quello delle competenze. Ma, che cosa è una competenza? È bene cercare di definire anche che cosa è una conoscenza e che cosa è un’abilità:
CONOSCENZE – insieme organizzato di DATI e INFORMAZIONI relative a oggetti, eventi, principi, teorie, tecniche, regole che il soggetto ap-prende, com-prende, archivia e utilizza in situazioni operative PROCEDURALI e PROBLEMATICHE;
ABILITÀ – atti concreti singoli che il soggetto compie utilizzando date conoscenze; di fatto un’abilità è un segmento di competenza in quanto sono sempre più conoscenze e più abilità insieme coordinate che contribuiscono alla costruzione e alla manifestazione di una competenza;
COMPETENZA – la CAPACITÀ dimostrata da un soggetto di saper utilizzare le CONOSCENZE, le ABILITÀ e le ATTITUDINI (atteggiamenti, motivazioni, attese) personali, sociali (sociocollaborative) e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale. Nel Quadro Europeo delle Qualifiche (si veda la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008) le competenze sono descritte in termini di RESPONSABILITÀ e AUTONOMIA. O meglio una competenza si manifesta quando un soggetto ha raggiunto un alto livello di autonomia (sapere che cosa si vuol fare e perché, quali sono le condizioni e i limiti per operare) e di responsabilità (sapere quali effetti produce l’esercizio di quella data competenza).
Una competenza è, quindi, un operare mirato in un contesto di responsabilità al fine della produzione di un dato cambiamento: un chirurgo che opera, un architetto che progetta, un cuoco che cucina, un sarto che taglia e cuce, un docente che insegna e così via. Nel campo scolastico è agevole parlare di competenze, se l’obiettivo è il conseguimento di una qualifica o di un titolo direttamente spendibile nel mono del lavoro. È meno agevole, se il titolo è propedeutico a titoli qualificanti successivi; in questo caso sono determinanti competenze di carattere civico e di carattere culturale. La nuova disciplina Cittadinanza e Costituzione riguarda la prima istanza, le altre discipline la seconda. In ogni caso è sempre molto difficile individuare discipline rigidamente monodisciplinari: in effetti, anche se la disciplina è una, gli sconfinamenti in altre discipline sono sempre evidenti e a volte anche molto marcati. Cittadinanza e Costituzione non può fare a meno della geostoria; la fisica non può prescindere dalla matematica; e la stessa matematica coinvolge anche la lingua per tutto ciò che concerne i processi logici che essa governa.
Per quanto riguarda il nostro sistema di istruzione e di formazione, di competenze si è sempre parlato ovviamente in tutti i campi dei percorsi professionalizzanti; oggi, invece, il discorso sulle competenze riguarda tutti i gradi dell’istruzione secondo la seguente progressione:
– nella scuola dell’infanzia (Orientamenti del ’91) si parla di sviluppo della competenza e si afferma che questa scuola “consolida nel bambino le abilità sensoriali, percettive, motorie, linguistiche e intellettive, impegnandolo nelle prime forme di riorganizzazione dell’esperienza e di esplorazione e ricostruzione della realtà”;
– nelle Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, di cui al dm 31 luglio 2007, per ciascuna delle dieci discipline di studio si individuano alcuni “traguardi per lo sviluppo delle competenze” al termine sia della scuola primaria che della scuola secondaria. Al termine della classe quinta primaria e dell’esame di licenza media è prescritto che siano certificate le competenze raggiunte dagli alunni, ma l’individuazione di tali competenze è affidata ai consigli di classe e alle commissioni d’esame. In effetti, sarebbe invece necessario che le competenze avessero riferimenti a livello nazionale, anche per dare un minimo di omogeneità alla terminalità dei percorsi;
– al termine dell’istruzione obbligatoria decennale i consigli di classe sono tenuti a certificare competenze che, in questo caso, sono state dettate opportunamente dal Miur (si vedano i decreti ministeriali 139/07 e 9/10);
– al termine dei cicli quinquennali dei licei e degli istituti tecnici e professionali, gli esami di Stato dovrebbero certificare le competenze raggiunte dagli studenti, come recita la legge di riforma 425/97, legge la cui corretta applicazione in materia fino ad ora è rimasta assolutamente inevasa. È da augurarsi che nell’attuazione completa del riordino dei cicli avviato dalla presente Amministrazione, le competenze terminali da certificare vengano debitamente individuate, definite e descritte.
Pertanto, a tutt’oggi, l’unica operazione certificativa certa è quella che riguarda la conclusione dell’obbligo di istruzione. Sono state definite le competenze sia di cittadinanza, curvate da quelle adottate dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio il 18 dicembre 2006, sia quelle culturali che sono state raggruppate in quattro assi pluridisciplinari, quello dei linguaggi, quello matematico, quello scientifico-tecnologico e quello storico-sociale. E si è giustamente sottolineato che i saperi e le competenze devono assicurare l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nonostante le loro diverse finalità (dm 139/07): ciò per garantire a tutti gli alunni una parità di trattamento a prescindere dal percorso scelto. Comunque, verranno certificate solo le competenze culturali: si veda il dm 9/10 con cui viene adottato un modello di certificazione valido per tutte le scuole.
La certificazione delle competenze richiede operazioni diverse rispetto a quelle a cui noi siamo abituati per la valutazione degli apprendimenti, che richiedono prove periodiche, scritte, orali, pratiche, a ciascuna delle quali viene attribuito un voto, nonché, quando è il caso, esami conclusivi. Si tratta di procedure insufficienti ai fini dell’accertamento e della certificazione di una competenza. Nello stesso mondo del lavoro si pratica il cosiddetto bilancio di competenze: consiste nell’avvio di un rapporto dialettico tra un soggetto e un gruppo di osservazione, che ha la durata di alcuni giorni, in cui il soggetto produce i suoi crediti, li discute e viene sottoposto a prove e a colloqui. Il tutto si svolge non in un clima di esame investigativo dell’”errore”, ma di un vero e proprio accertamento del peso di ciò che il soggetto produce e quale valore abbia qualora dovesse essere utilizzato nel mondo del lavoro. Ricorrono al bilancio di competenze soggetti in cerca di un primo o di un secondo lavoro. Sarebbe opportuno che criteri simili venissero adottati per la verifica e certificazione delle competenze di fine obbligo.
In altri termini, mutatis mutandis, dovrebbe “pesare” nella valutazione certificativa non tanto l’esito di una prova finale – che è assolutamente da scartare – o di più prove effettuate nell’ultimo periodo di scuola, bensì, invece, l’esito di una continua attenzione posta dagli insegnanti rispetto allo sviluppo/crescita dell’alunno e del suo apprendimento: un’attenzione adottata in ordine a più indicatori e relativi descrittori fin dall’inizio del primo anno del biennio. Ad esempio, occorrerebbe considerare la frequenza attenta ed attiva alle lezioni, il livello di partecipazione, l’attenzione, l’impegno; occorre osservare come e quando e perché interviene nel corso del dialogo docenti/alunni; se e come avverte le intersezioni che corrono tra una disciplina ed un’altra; qual è il grado di collaborazione con i compagni, quale attenzione ha nei confronti del mondo esterno, del mondo del lavoro; che cosa pensa del suo futuro; se avverte la necessità di continuare ad imparare, di progettare il suo futuro; quale tipo di curiosità ha nei confronti di ciò che lo circonda, quali interessi manifesta, indipendentemente da quelli indotti dalla scuola… e così via!
Sulla ricerca e definizione di tali indicatori si dovrebbe operare fin dai primi giorni del biennio a livello strettamente collegiale per evitare che ciascun docente assuma implicitamente indicatori diversi e non condivisi. Tale operazione è, forse, più importante della stessa attività di progettazione educativa e didattica, la quale, comunque, diventa indispensabile a fronte del fatto che al termine del biennio si devono certificare competenze alle quali noi insegnanti non abbiamo ancora alcuna abitudine. In effetti, l’insegnante del biennio, fino ad oggi (o meglio fino al varo della normativa concernente l’innalzamento dell’obbligo di istruzione) ha sempre operato in termini di quinquennio nella piena consapevolezza che la frequenza dei cinque anni non sono obbligatori per nessun alunno.
Ora non è più così: egli dovrà operare anche in termini di biennio obbligatorio, nella consapevolezza che, se l’alunno è obbligato alla frequenza, l’insegnante è obbligato ad adoperarsi perché questa frequenza sia produttiva. Dovrà quindi adottare tutte quelle strategie, del resto già note agli insegnanti della scuola primaria e media, utili soprattutto a quello che possiamo chiamare di recupero precoce. Sarà estremamente necessaria una puntuale programmazione collegiale pluridisciplinare, anche fruendo dei suggerimenti offerti dai dipartimenti opportunamente istituiti: una programmazione in cui siano adottati tempi, mezzi e strumenti, contenuti e obiettivi di insegnamento, tutti convergenti in primo luogo alla sollecitazione di quelle competenze che dovranno essere certificate al termine del biennio. L’autonomia consente una serie di possibilità che vanno indubbiamente utilizzate.
Anche perché è stato anche il passaggio da una scuola eterodiretta a una scuola autonoma, ma non autoreferenziale, che ha favorito la scelta di passare dalla scuola delle conoscenze e delle abilità alla scuola delle competenze: una sfida non da poco!
Maurizio Tiriticco