Il maggior investimento in Italia è sull’ignoranza! La verità dei numeri
Se l’andamento statistico attuale verrà confermato, nel 2020 7 italiani su 10 saranno a “rischio esclusione sociale”(OCSE 9 ottobre 2013); questa è la conseguenza della mancanza di investimenti nell’istruzione. I recenti provvedimenti governativi per sostenere la scuola non sono in grado di convertire questo trend: infatti scomponendo matematicamente le cifre stanziate, purtroppo le risorse risultano inadeguate ad affrontare una tale emergenza.
Le competenze linguistiche e matematiche della popolazione italiana sono al minimo storico – e forse siamo pure fortunati che ci sia un minimo nella scala di valutazione OCSE! – (V. Gallina, 9/10/2013 su “Il Corriere della sera”/Canale Scuola).
Eppure, quand’anche sofferenti per il colpo subito, dobbiamo riconoscere che non ci si può meravigliare del triste risultato.
L’Isfol documenta la seguente distribuzione dei titoli di studio della popolazione italiana:
– non diplomati 54%;
– diplomati 34%;
– con titolo superiore al diploma 12%;
– laureati in calo dal 19,8% al 12%, rispetto a due anni fa (dati MIUR);
– abbandoni scolastici con un ritorno al 20%, fino a punte fino del 30%.
Ancora oggi, nel 2013, più della metà della popolazione italiana non possiede un livello di studi pari a quello previsto dal diritto all’istruzione; attestandosi cioè sotto la soglia dell’obbligo d’istruzione e rimanendo priva del diploma di scuola secondaria superiore o di qualifica professionale.
Secondo, poi, quanto predice un recente modello gaussiano sull’istruzione della popolazione italiana, la caduta tendenziale del livello di alfabetizzazione è destinata ad aggravarsi sempre più (vedi Fig.1): nel 2020 i “non istruiti” – calcolati includendo il fattore catalizzante dell’analfabetismo di ritorno – raggiungeranno circa il 66,6% della popolazione dai 16 ai 64 anni. Cioè esattamente i 2/3 degli italiani!
In altri termini, il trend indicato nella Fig. 1 predice che nel 2020 (quando si farà il “check up” sugli Obiettivi UE 2020), circa 7 italiani su 10 saranno considerati dall’OCSE cittadini in via di “esclusione sociale”.
Non c’è molto da essere ottimisti.
Ciononostante, assistiamo ancora a profuse ostentazioni di esagerata demagogia sui finanziamenti alla scuola.
Si dirà che è il massimo che in questo momento si può fare o che, rispetto a quanto “non fatto”, queste iniziative sono un segnale positivo e forte per le direttrici che la politica del prossimo futuro dovrà seguire.
Il mondo della scuola credo sia molto stanco di queste promesse, oggi si dice, elettorali.
Il punto è che non è più questione di “direttrici” e di “messaggi”, ma è solamente una questione di dignità.
Alla dignità segue la centralità di una definita identità. La scuola le ha perse entrambe.
All’inaugurazione dei “Tre giorni per la scuola” (Città della Scienza, 9-11 ottobre 2013), è stato ribadito che il governo ha stanziato 15 milioni di euro per la dispersione scolastica.
Mi è venuto spontaneo prendere lo smartphone e fare un calcolo immediato, dividendo la cifra per 8.644 scuole: si tratta di circa1.750 euro a scuola.
Nel caso in cui le scuole interessate alla dispersione scolastica fossero solamente 1/3 di tutte le sedi italiane, diventerebbero circa 5.000 euro a istituto.
Comunque, viene da chiedersi perché con i dati appena ricordati sull’analfabetismo – freschi freschi di sfornata OCSE – alcune scuole non ne avrebbero bisogno?
Poco tempo fa, un vice-ministro del nostro governo ha sottolineato che il Fondo di Istituto delle scuole sarà di 763 milioni di euro.
Di nuovo, riprendiamo velocemente lo smartphone: 763 milioni diviso 8.644 scuole e, poi, ancora diviso per circa 100 docenti (a scuola) e, infine, per 365 giorni, sono esattamente:
– 0,46 centesimi a docente (al giorno).
Cioè 0,46 centesimi al giorno per lavorare tutto l’anno:
– sulle attività progettuali con le aziende, le università, gli enti locali e le associazioni territoriali;
– sulla ricerca didattica e l’innovazione digitale;
– sui bisogni educativi speciali (Bes);
– sul piano delle attività per l’inclusione;
– sulla gestione didattica nel rapporto scuola-famiglia.
Mi chiedo se si tratta di una questione di scale, dirlo in milioni appaga di più che dirlo in centesimi?
E poi, il conto della serva fatto in contrattazione d’istituto, laddove si paventa un ulteriore taglio del Fondo del 25%.
Sì, i conti tornano purché ai 763 milioni si applichi “la divisione dei pani e dei pesci”.
Insomma, abbiamo stimato il taglio linearissimo di circa il 75% del Fondo d’istituto negli ultimi tre anni. Mi chiedo come Andrea Ichino (“Perché (ora) sono inutili più fondi alla scuola” sul “Corriere della sera” del 10/10/2013) riesca a dire che il problema italiano non sia un problema di finanziamenti.
L’analisi comparata è molto complessa e non si riduce alla scelta di parametri su macro-scale, che poco raccontano di quel che accade sulle micro-scale.
Tutti siamo convinti che il “problema istruzione” non è solo un semplice problema di investimenti – basti pensare alla valutazione nei test Invalsi o al registro elettronico –, ma i 46 centesimi di euro la dicono lunga sullo stato di precarietà della scuola pubblica.
Quel che succede ai flussi finanziari sulla macro-scala non accade assolutamente sulle micro-scale, dove le scuole sopravvivono.
Perché tanti palesi paradossi?
È come se le sorti dell’istruzione, nel bene o nel male, non avessero comunque nessuna efficacia sui destini politici.
La frammentazione è d’obbligo. “Divide et impera”. E la scuola vive sempre di più quell’”io diviso” che tanto ci deprime.
Giorni fa, su “Il Sole 24ore” ho letto: “Fuori dai tagli la ricerca, la scuola e la sanità” e sembrerebbe una buona notizia se non avessimo fatto questi calcoli. E rifletto.
Anche il cittadino più ingenuo – con i figli che vanno a scuola – ormai ha sotto gli occhi il fatto incontestabile che la scuola non è assolutamente al centro degli obiettivi politici.
Basta forse qualcuno che semplicemente dica “alla scuola non saranno operati tagli lineari” o “creerò un milione di posti di lavoro”?
Se non si vuole fare demagogia, occorre “investire”, e con urgenza, molte risorse sulla scuola. Non c’è scampo!
Fare un tirocinio nelle aziende, per il triennio delle superiori, costa; e sappiamo che non è di qualità se lasciato al volontariato.
Ragionare in termini di tagli non significa semplicemente ridurre investimenti, ma anche introdurre subdolamente innovazioni – obbligatorie o facoltative – “a carico delle scuole” come quelle dell’Agenda digitale e della smaterializzazione dei documenti.
Ecco un primo esempio: eliminare i registri (per intendersi, quelli dei professori) e sostituirli con i registri elettronici.
Ebbene, fatelo… o peggio sperimentatelo; la responsabilità della gestione e della perfetta tenuta dei registri, in caso di contenzioso, è della scuola che valida (perché se lo sceglie) il software e le sue dinamiche relative alla trasparenza e alla privacy.
I docenti che si espongono e volessero utilizzare il registro elettronico chiedono una formazione. Quando? Come?
Altre ore della loro vita per una formazione “facoltativa”?
Un altro esempio: eliminiamo i libri di testo cartacei. Bene!
Con cosa li sostituiamo?
Fate vobis, diceva il grande Giovanni Boccadoro, o lasciate che l’editore torni al suo monopolio.
E di nuovo mi chiedo se questo è il modo di mettere la scuola – ma sarebbe meglio dire l’istruzione e la formazione delle generazioni future, la crescita sociale e civile del cittadino europeo – al “centro”? E di cosa?
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Arturo Marcello Allega