Home » Didattica e apprendimento » L’importanza degli aspetti comunicativi nel concreto rapporto docente/alunno

L’importanza degli aspetti comunicativi nel concreto rapporto docente/alunno

Pubblicato il: 12/01/2012 18:28:25 -


È ormai assodato che la comunicazione interpersonale, verbale e non verbale, rappresenti uno degli aspetti più rilevanti del processo educativo. Quali suggerimenti, spunti e suggestioni possono trarre docenti e operatori della scuola dalle ricerche condotte nell’ambito delle scienze sociali? Presentazione del nuovo libro di Alba Porcheddu, “Didattica e comunicazione, antropologia della comunicazione e processi didattico-educativi” (Anicia, Roma, 2011).
Print Friendly, PDF & Email
image_pdfimage_print

Jürgen Habermas ci ricorda, in un saggio del 1973, che la comunicazione, al pari del lavoro, rappresenta un tratto antropologico universale della natura umana che, quindi, non può non essere un tema costante delle scienze sociali. È da questo assunto, citato nella introduzione del volume, che Alba Porcheddu prende l’avvio per la sua ricerca.

Se è vero che la comunicazione investe ogni aspetto dell’attività umana, ne risulta che anche il rapporto educativo non può che esserne fortemente interessato. I problemi che investono i processi formalizzati dell’insegnare/apprendere, tipici di tutte le società ad alto sviluppo, dove la scuola è diventata necessariamente una scuola aperta a tutti e per tutto il corso della vita, non derivano forse anche da difficoltà comunicative? Si tratta di un interrogativo che si è posto prepotentemente all’ordine del giorno proprio negli ultimi decenni del secolo scorso, quando, nel nostro Paese, ma non solo, la domanda di istruzione ha assunto una consistenza sconosciuta ai decenni precedenti, e l’offerta non è sempre stata in grado di fornire risposte adeguate.

Al boom economico è seguita una crescita civile e culturale di ampio respiro, per cui ampi settori della popolazione, da sempre esclusi dall’accesso alla cultura, hanno avvertito l’importanza della scuola per i loro figli, come mai in precedenza. L’accesso all’istruzione di una nuova generazione di allievi – ricordiamo l’innalzamento dell’obbligo con la legge 1859 del 1962 – ha comportato serie difficoltà in termini di efficacia dell’offerta educativa. Non a caso, negli anni Sessanta nel nostro Paese le bocciature fioccarono e solo la Lettera a una professoressa di Don Milani costrinse insegnanti e amministrazione scolastica a ripensare la natura e le finalità dell’offerta educativa nel suo complesso.

Quest’insieme di ragioni ha riguardato non solo l’organizzazione scolastica “tout court”, ma anche e soprattutto le modalità dell’offerta in aula, il concreto rapporto docente/alunno. È stato allora che i legami tra educazione, didattica e comunicazione hanno iniziato a essere temi di indagine per tutti i nostri pedagogisti. Provenendo da una scuola fortemente nozionistica, connotata dall’idealismo gentiliano, secondo cui il docente e la sua lezione costituivano un modello unico e insostituibile, si pensava che proprio dalla lezione cattedratica si sarebbe originato un produttivo rapporto tra docente e alunno. Ma non poteva essere così! È nota la sufficienza con cui Gentile guardava alla pedagogia! E negli istituti magistrali, a cui dette vita nel 1923, questa venne considerata una sorta di sottoinsieme della filosofia. Così, mentre altrove Dewey e la sua “filosofia dell’attivismo” davano nuova linfa ai metodi dell’insegnare/apprendere, in Italia questi venivano deliberatamente ignorati, e la esperienza stessa di Maria Montessori veniva di fatto considerata non conforme a una scuola che ormai si proponeva soltanto di fare dei giovani italiani soltanto degli ubbidienti balilla! Non fu un caso che, nel 1929, il Ministero della Pubblica Istruzione fu rinominato Ministero dell’Educazione Nazionale: il proposito di fare dell’assimilazione dell’ideologia fascista il fine della scuola era più che evidente, al posto di promuovere la formazione della persona e del cittadino.

Nell’immediato dopoguerra non fu affatto facile ricondurre, nella scuola italiana, quell’insieme di ricerche che per la prima metà del secolo avevano interessato le scuole di tutti i Paesi avanzati, in Europa e negli Stati Uniti. “Democrazia ed educazione” di John Dewey, pubblicato a New York nel 1916, venne tradotto per La Nuova Italia solo nel 1949! Trent’anni di silenzio! A causa di questi ritardi in materia di ricerca pedagogica – anche se le ragioni furono molteplici – quando giungemmo a innalzare in Italia l’obbligo di istruzione, la scuola media non fu in grado di dare risposte adeguate a un numero sempre crescente di alunni che esigevano metodi diversi rispetto a quello della tradizionale lezione cattedratica. Pertanto, i problemi del concreto rapporto docente/alunno, della concreta interazione verbale e, soprattutto, non verbale in classe, furono in larga misura ignorati o lasciati al “savoir faire” dei singoli insegnanti. Le ricerche e i contributi di Piaget e di Vygotsky, dei formalisti russi, della filosofia analitica inglese e della stessa istruzione programmata (da cui derivano le macchine per insegnare di Burrhus Frederic Skinner), che è altra cosa rispetto alla programmazione educativa e didattica, non costituivano apporti interessanti per innovare le consuete pratiche didattiche.

Per tutta questa serie di ragioni, negli anni Settanta in Italia si ebbe un costante fiorire di ricerche nella pedagogia o, meglio, nelle scienze dell’educazione che ne costituivano il necessario arricchimento. Così sociologia, antropologia, docimologia, per citare solo alcune discipline della cosiddetta “enciclopedia pedagogica”, secondo una felice definizione di Aldo Visalberghi, costituirono oggetto di grande attenzione, sia da parte della ricerca accademica sia da parte della pratica didattica: quest’ultima, ovviamente, non senza incontrare notevoli difficoltà.

In questo clima di ricerca e innovazione si colloca anche il volume di Alba Porcheddu, il cui fine specifico è quello di fare ordine tra le tante proposte innovative avanzate e offrire, anche alla scuola militante, uno strumento di riflessione e di concreti suggerimenti. In effetti, “che la comunicazione verbale e non verbale interessi il processo educativo è una considerazione che ha il carattere dell’evidenza. Il rapporto educativo tra due o più persone, particolarmente rilevante quando i suoi termini sono gli adulti da un lato e i giovani dal’altro, può aver luogo, infatti, in modo più o meno programmato, con o senza chiare finalità, con l’aiuto di tecniche raffinate o, al contrario, utilizzando mezzi del tutto empirici: in ogni caso si affida a una condizione di fondo, ossia a un processo di comunicazione che trova la sua espressione più esauriente nei suoi aspetti linguistici” (p. 9).

La ricerca della Porcheddu muove da lontano: dallo sviluppo delle scienze della comunicazione e dell’informazione, e dai loro rapporti con la cibernetica e lo stesso linguaggio umano. Sotto questa luce, i fenomeni dell’entropia, della ridondanza, del feedback investono anche i campi della comunicazione verbale e non verbale. E non è un caso che, proprio in quello scorcio di secolo a cui abbiamo fatto poc’anzi accenno, la Scuola di Palo Alto andava definendo quella psicologia che in termini lati può definirsi “umanistica” (si pensi anche a Carl Rogers e a Abraham Maslow), di cui i cinque assiomi della comunicazione interpersonale hanno costituito – e costituiscono tutt’oggi – una sorta di pietra miliare per ogni successiva ricerca.

Altri interessanti e suggestivi spunti di riflessione e di analisi riguardano la teoria della comunicazione che il formalista russo Roman Jakobson mutuò e sviluppò dalla teoria dell’informazione, individuando e definendo quelle sei funzioni linguistiche (emotiva, conativa, fàtica, poetica, metalinguistica e referenziale) che caratterizzano e sostanziano qualsiasi campo delle interazioni interpersonali. A queste suggestioni l’autrice aggiunge anche un corposo capitolo tutto dedicato agli “speech acts” (atti linguistici), che i filosofi analitici inglesi John Austin, John Searle e Herbert Paul Grice elaborarono, proprio negli anni Settanta, con ampio successo. Si tratta di un insieme di indicazioni e suggerimenti che riguardano la comunicazione interpersonale, verbale e non, e che condizionano fortemente i campi della comunicazione umana.

L’interrogativo che ne consegue è il seguente: se è vero che la comunicazione interpersonale è ciò che condiziona, in primo luogo, gli atteggiamenti e i comportamenti dei singoli individui, perché i fenomeni che ne conseguono non devono essere oggetto di primario interesse da parte degli insegnanti e della scuola? Non è un caso, infatti, che le interazioni verbali in classe costituiscano il tema di uno degli ultimi capitoli del libro. Vi è una lunga tradizione nel campo della ricerca psicologica, che fa capo a Jakob Levi Moreno (“la sociometria”, l’analisi delle relazioni all’interno di un gruppo rilevate con appositi test sociometrici), a Kurt Lewin (“la teoria del campo”) e anche, se si vuole, a Eric Berne (“la psicologia transazionale”), che offre innumerevoli spunti di analisi sui concreti rapporti che si formano tra due persone, all’interno delle diadi (le coppie), e dei piccoli gruppi, come la famiglia, i parenti, gli amici, e, perché no?, le classi di alunni.

Va detto che è limitativo registrare soltanto le ricadute negative di rapporti mal costruiti e male agiti dall’insegnante (“l’effetto pigmalione”, “l’effetto alone” ecc., di cui parlano le note ricerche di Robert Rosenthal); è produttivo, invece, analizzare con attenzione le modalità delle interazioni verbali in aula, perché, dopo averle opportunamente registrate, è possibile constatare le ragioni di certe affermazioni o di certe risposte. L’autrice riporta l’esperienza di Ned Flanders e le categorie che utilizza per rilevare i concreti comportamenti dell’insegnante (quando accetta l’alunno, lo loda e l’incoraggia, pone domande, espone argomenti, dà istruzioni, giustifica o critica) e dell’alunno (quando risponde, assume iniziative, o crea momenti di confusione o di silenzio); sui dati rilevati è quindi possibile ravvisare dove l’insegnante ha assunto un comportamento produttivo e dove invece non l’ha fatto. In effetti, ogni professionista è tenuto a sottoporre costantemente a un accurato e mirato autocontrollo il suo operato: se un paziente non guarisce, un imputato è condannato, o un ponte crolla, il feed back è immediato! D’altra parte, quando un alunno viene bocciato, la colpa ricade sempre su di lui: non si è impegnato come avrebbe dovuto.

Non esiste, invece, anche una responsabilità dell’insegnante o del sistema scuola così come è organizzato? Sono interrogativi che in quegli anni tutti ci siamo posti e a cui la stessa ricerca della Porcheddu vuole dare una coerente e giustificata risposta .

Il volume – come si afferma nella quarta di copertina – esplora trent’anni di ricerche nel campo della comunicazione e dei linguaggi che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, hanno interessato l’intero ambito delle scienze sociali, e hanno avuto il merito di provocare interessanti ricadute non solo nell’ambito dei ricercatori, ma anche in quello scolastico. Si tratta di ricerche e suggestioni che possono essere, ancora oggi, di estremo interesse, proprio per le difficoltà che stanno attraversando la nostra scuola e i nostri insegnanti. In un momento in cui il web e tutte le sue applicazioni – negli anni Ottanta ancora ai primi passi –, dai cellulari sempre più avanzati ai “social network sempre più frequentati, hanno un impatto così potente sui linguaggi dei giovani e sul loro modo di veicolare informazione e apprendere, il libro della Porcheddu appare estremamente attuale. Anche perché l’impressione è che su tematiche di questo tipo sia scesa una sorta di cortina del silenzio e gli insegnanti sembrano essere più soli che mai di fronte a situazioni comunicative sempre più sofisticate e difficili, soprattutto in merito al rapporto tra nuove e vecchie generazioni. Le stesse preoccupazioni per i test INVALSI non sono forse il segnale di quanto una certa cultura della valutazione non abbia ancora fatto breccia nel nostro fare scuola? Test che, del resto, anche nella loro “confezione”, non sempre reggono a quella rigorosa disanima che il docimologo è tenuto a fare. Insomma i segnali del disagio investono certamente il fare scuola di ogni giorno, ma anche lo stesso governo della scuola – o meglio “governante” – di cui la nostra amministrazione ha, in primis, la responsabilità.

Vi sono quindi ragioni più che valide affinché il volume abbia un numero più ampio di lettori (non solo fra gli insegnanti) e un successo maggiore rispetto a quello già ottenuto a suo tempo!

Maurizio Tiriticco

32 recommended

Rispondi

0 notes
1150 views
bookmark icon

Rispondi