Le competenze, davvero tutto è scontato?
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L’assenza di una sicura teoria dell’apprendimento per competenze e l’atteggiamento prevalente di considerare come risolta una volta per tutte la valutazione degli esiti con la traduzione in voti e modelli ministeriali consiglierebbero cautela e una discussione allargata e approfondita. Alcune riflessioni.
Nella versione che circola ormai in tanti documenti e anche nelle recenti “Indicazioni per la scuola superiore” la definizione e la conseguente scelta per la diffusione delle competenze da raggiungere in ambito didattico sono ormai un dato scontato e indiscusso. In nome del successo scolastico e della migliore realizzazione della persona sembra che sia inevitabile costruire tutti i curricoli sulla declinazione sistematica di conoscenze + abilità + risorse personali mobilitate dall’individuo, per affrontare le novità in situazioni complesse. Nella versione “democratica”, per altro, sulla spinta dello “zoccolo comune” francese, si punta alla diffusione dell’“insegnamento per competenze” in nome di equità ed egualitarismo per il cittadino del XXI secolo. Insomma tutto a posto: basta mettersi al lavoro in classe, che sia in nome dell’affermazione del successo individuale oppure per spirito di compensazione sociale.
Qualche cautela forse dovrebbe essere avanzata, anche sulla scorta delle questioni poste da Marcel Crahay nel recente seminario romano della fondazione TREELLE. L’assenza di una sicura teoria dell’apprendimento per competenze e l’atteggiamento prevalente di considerare come risolta una volta per tutte la valutazione degli esiti con la traduzione in voti e modelli ministeriali consiglierebbero cautela e una discussione allargata e approfondita. In genere si constata come i migliori docenti sappiano ben identificare e selezionare le conoscenze essenziali, riescano a definire le operazioni cognitive possibili così da esercitare le abilità necessarie [alcune delle quali tuttavia acquisite altrove e altrimenti rispetto alla scuola, penso a quelle manipolatorie legate alle TIC e alla rete], mentre è ben più difficile assistere a prove di verifica in cui la simulazione di una situazione problematica e la risoluzione per competenze sia davvero promossa, esercitata e valutata. Basta assistere a una qualsiasi sessione degli orali dell’Esame di Stato per riconoscere quanto fragili siano le miriadi di “tesine” presentate e forzati i “collegamenti” tra le discipline. Cerchiamo allora di non creare una delle tante situazioni confuse che hanno visto per anni i docenti rincorrere le novità dell’ultima ora per finire poi frustrati, a fronte degli scarsi risultati di apprendimento.
Elenco qui le principali cautele su cui vorrei confrontarmi.
1. La domanda sul “valore aggiunto” realizzato e sulla necessità di standard di efficacia nella scuola è legittima, ma a condizione di ricordare che la “sua” azione non è risolutiva: se nella misurazione degli apprendimenti, come dicono PISA e indagini INVALSI, può essere isolata e “neutralizzata” la componente socioculturale, così non è nella realtà. La compensazione effettiva delle difficoltà individuali d’origine resta una incognita di non poco conto e rimanda alle responsabilità e capacità d’intervento coordinato sul territorio di molte altre strutture e sevizi pubblici, privati, del terzo settore.
2. L’esperienza della sistematica rilevazione degli “indicatori di risultato” in Francia suggerisce che l’efficacia della didattica è sempre “relativa”; tra le scuole il confronto e la comparazione devono essere condotti con attenzione: il divario tra condizioni iniziali e i risultati finali (competenze dimostrate) del singolo istituto sono la misurazione fondamentale, il liceo migliore non è quello che seleziona in entrata e si caratterizza per un bacino favorito, ma l’istituto di periferia che dai livelli iniziali sfavorevoli conduce l’utenza ad apprendimenti in cui il “delta differenziale” è davvero significativo. Ma nel secondo caso, proprio per compensare le situazioni meno favorevoli occorrerebbe mobilitare più risorse, spostare i migliori insegnanti, intervenire sull’ambiente sociale, solo allora sarebbe equo misurare le competenze raggiunte. Il nostro sistema è in grado di farlo anche a livello di singole scuole?
3. Occorre domandarsi se la scuola italiana che conosciamo, del tutto “rigida” [spazio classi, orari, rapporto docente-studenti, classi di concorso] sia in grado di sviluppare percorsi individuali di vera autonomia, di ricerca e di mobilitazione di risorse che finirebbero per essere ancora una volta legate principalmente al possesso di strumenti tecnici e culturali acquisiti e disponibili in altro ambito (quello d’origine).
4. La concezione di competenze, se si guarda al modello PISA con le sue “literacy”, assume “toni alti” con forti implicazioni didattiche non a caso definibili come “rivoluzionarie” per il ribaltamento del rapporto insegnamento-apprendimento, il protagonismo degli studenti implica “coinvolgimento” e lo sviluppo di percorsi di feedback metacognitivi e di responsabilizzazione, di pratiche di laboratorio diffuso, scelte che mal si conciliano con il quadro delle attuali pratiche in classe che vedono la lezione frontale e “sul libro di testo” al centro (70%) delle opzioni dei docenti italiani.
5. La necessità di una teoria dell’apprendimento per competenze è tanto più evidente se si vuole affrontare la questione degli “insuccessi” e del recupero possibile: le conoscenze insufficienti possono essere compensate con una buona dose di studio e applicazione, magari sollecitando le diverse modalità di acquisizione dei soggetti, le risorse della rete e dei nuovi media; le abilità con esercitazioni mirate, ma non è affatto chiaro come si compia il salto al gradino di sintesi superiore, alle competenze in occasione delle cosiddette “situazioni di studio e di lavoro”. Esisterà allora e sempre uno “zoccolo duro” di esiti mancati?
6. Quali modelli di convergenza tra discipline sono necessari perché si pratichi un percorso condiviso così da rendere praticabile l’accertamento delle competenze? Le prove PISA suggerirebbero che si dovrebbe tendere a “sessioni di verifica dedicate” con simulazioni di situazioni e problemi organizzativi, comunicativi, in cui i candidati sarebbero chiamati a dimostrare l’utilizzo (la mobilitazione) di tutte le risorse a disposizione: dalle conoscenze disciplinari ad abilità specifiche esercitate nelle fasi di apprendimento. Questo però significa un processo articolato che vede le riunioni di dipartimento definire insieme, ma sempre in rapporto alla situazione concreta, delle procedure comuni, degli standard di prestazione per tappe e delle verifiche periodiche elaborate sempre in accordo; successivamente nei CdC si potrebbero concordare una o due brevi sessioni di “lavoro in sequenza” in cui le discipline convergano su “temi significativi” senza forzature (non devono essere per forza tutte), ma nei quali occorre spendere più conoscenze e diverse abilità con diversi linguaggi specialistici. A questo punto la valutazione non dovrebbe più essere su singole materie ma sulla prova in sé per livelli appunto di competenze registrate (quindi le prove negative non hanno… valutazione). Saper tabulare, descrivere, argomentare e proporre conclusioni aperte richiede il dominio non di singole discipline ma di una matrice attiva del sapere.
7. Le competenze sono in genere definite come “utili” anche per la loro origine teorica (il mondo economico produttivo); va bene, ma a patto di chiarire che non tutto è utilizzabile in termini immediati e sovente la fatica dell’apprendimento non è immediata nei risultati, ma si pone “in vista di”. Analizzare un testo poetico non presenta tratti di spendibilità se non all’interno del bisogno diffuso di emozionarsi delle sorprese che danno le parole, come accade anche nella musica [non scordiamoci che i giovani vivono accompagnati da una continua “colonna sonora” nelle loro giornate]. La scienza e la matematica devono aprire le domande di sé nel mondo, sulla “misura di tutte le cose” e sull’importanza quindi di misurare correttamente quanto ci accade intorno (statistiche, grafici, andamenti di fenomeni) anche per uscire dalla banalità e diventare i cittadini coscienti di cui tanto si parla e poco si realizza.
8. La motivazione – vero nucleo del successo scolastico – rimanda alla ricerca ineludibile ma tutta da accettare del senso del proprio abitare il tempo, nella società e nell’ambiente. Cosa questa che, forse, si pone a un livello non sempre descrivibile nell’ambito delle competenze e interroga profondamente il ruolo degli adulti, dei docenti nello specifico.
Emilio Molinari