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Com’è difficile fare i compiti

Pubblicato il: 27/02/2012 16:49:17 -


Che cosa cambierebbe se i bambini dovessero eseguire i compiti da soli, senza genitori, educatori o baby sitter? Basterebbero loro gli strumenti che ricevono a scuola? L’esperienza, i dubbi e le domande di chi lavora a un doposcuola.
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Ho iniziato a lavorare in un dopo scuola, ormai, fatemi fare i conti… 18 anni fa! Ero giovane, appena iscritto all’università di Scienze dell’educazione. Non sapevo che cosa volesse dire lavorare con i bambini, ma ero pieno di entusiasmo, avevo voglia di imparare e, soprattutto, dovevo guadagnare un po’ per pagarmi le tasse universitarie.

Gli anni sono passati, sono passati tanti bambini, gli educatori si sono alternati e anche la proposta del doposcuola ha subito una certa evoluzione.

È iniziato come un servizio alle famiglie, dove venivano accolti una quindicina di bambini, che si fermavano dalla fine dell’orario scolastico, pranzavano, facevano un po’ di compiti, poi dedicavano il resto del tempo al gioco libero, fino a quando i genitori li venivano a riprendere.

Negli ultimi otto anni si sono definiti alcuni parametri che caratterizzano il doposcuola, scelti dal gruppo di educatori che, un po’ alla volta, si è formato e stabilizzato. Tra questi quello centrale è, sicuramente, lo spazio che viene dedicato all’esecuzione dei compiti che i bambini devono fare a casa. Dopo il pranzo, il gioco libero o organizzato, le chiacchiere, le confidenze, i bisticci.

Sui compiti a casa vorrei concentrare la mia attenzione. I compiti e, quindi, l’apprendimento.

Fare i compiti vuol dire, da una parte, fare le veci del genitore e, dall’altra, non sostituirsi all’insegnante. Vuol dire, cioè, seguire il bambino, stimolarlo, sostenerlo e dargli spiegazioni nel caso lo richieda senza la pretesa di insegnare. Vuol dire, almeno secondo il nostro metodo e in accordo con le insegnanti delle scuole con cui lavoriamo, far presente ai bambini gli errori e correggerli con loro, rinforzando, in questo modo l’apprendimento.

Già questo pone un quesito: i compiti dati a casa non dovrebbero servire all’insegnante per verificare la propria azione didattica? Se io correggo, pur spiegando l’errore, come può l’insegnante capire cosa deve ri-spiegare?

Comunque, proseguiamo. I nostri gruppi-classe sono composti, al massimo, da venti bambini. Quello che abbiamo riscontrato negli ultimi anni è la difficoltà, che molti di loro trovano, nell’esecuzione dei compiti, sia per quanto riguarda la comprensione dei comandi sia per quanto riguarda l’esecuzione. Difficoltà intesa come evidente mancanza di autonomia.

E qui sorge la seconda domanda: se i bambini dovessero eseguire i compiti da soli (senza genitori, educatori, baby sitter), che cosa combinerebbero? Quali sarebbero i risultati? Gli strumenti che ricevono a scuola, basterebbero loro?

Rispondere a questa domanda, ormai, è diventato essenziale per chi gestisce un servizio di doposcuola come il nostro e, crediamo noi, anche per la scuola.

Perché dobbiamo capire quali siano le strategie vincenti, anche quelle molto innovative, che contribuiscono a un apprendimento reale e duraturo. Un apprendimento che, certamente, non inizia e finisce dentro le pareti scolastiche, ma non può nemmeno delegare all’esterno il recupero di chi “rimane indietro”.

Ho sempre ritenuto le insegnanti delle professioniste, non del “badantaggio”, bensì della didattica e dell’educazione. Di tutti: dei “bravi” e dei “meno bravi”. In questo momento, nel quale le classi aumentano di numero, i bambini stranieri non costituiscono più una piccola minoranza, e le nuove tecnologie ci pongono sfide e ci offrono possibilità, chiederci come e dove imparano gli alunni è una domanda fondamentale.

Come lo è creare alleanze con le famiglie ma, anche e soprattutto, con i servizi extra scolastici, perché si possa costruire insieme un percorso comune, che valorizzi le diverse competenze e, in modo sinergico, permetta di raggiungere risultati eccellenti.

Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensano le insegnanti, se sarebbero disponibili a mettersi in rete e a liberarsi, almeno un po’, del pregiudizio nei confronti di chi, formalmente, insegnante non è.

Roberto Parmeggiani

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