Ritorno al futuro dell’education
“Accadde”, almeno una volta, che la barriera tra le “due culture” fu infranta senza pudore. Per barriera mi riferisco al famoso saggio di C.P. Snow “Le due culture”, e alla contestualizzazione del suo dibattito nel recente saggio sulla “popolazione istruita” (“Chi ha il pane non ha i denti”). Non saprei se, in questo “caso storico”, la barriera fu abbattuta o semplicemente attraversata. Ma la storia di quel momento, nella globalità della condizione economica, politica e sociale, assunse caratteristiche tali da mettere nelle mani dei docenti scolastici il potere di “operare una capillare trasformazione”, oserei dire, tanto innovativa quanto popolare.
Gli aspetti più interessanti dell’evento storico “dimenticato” sono raccolti nell’istogramma qui sotto riportato, relativo alla produzione degli articoli di ricerca scientifica a opera di accademici e non accademici.
Ebbene, alla fine del XIX secolo, ed esattamente dal 1895 al 1915, nell’arco di vent’anni, abbiamo assistito allo svilupparsi del seguente fenomeno storico (Forman P., Heilbron J.L. e Weart S., “Physics circa 1900”, Historical Studies in the physical and biological sciences, 5, 1975, 1-186).
In Italia (e ancor più in Germania), buona parte dei cultori della scienza non era costituito dagli accademici e, pertanto, la produzione scientifica era soprattutto opera di coloro con i quali gli accademici collaboravano. La maggior parte dei non accademici lavorava nella scuola, dove si ricevevano buoni stipendi e le attrezzature facevano invidia anche a qualche efficiente laboratorio sperimentale europeo. L’istogramma che segue è stato elaborato dalle tabelle di Forman.
Analogamente accadeva, ad esempio, per la produzione scientifica nel mondo della fisica (per quello che ha verificato Giuliani G., “Novant’anni di fisica in Italia 1855-1944”, Pavia, 1996, a proposito del Nuovo Cimento, rivista nazionale della fisica italiana). Circa la metà dei cultori della fisica era non accademica, e solamente un quarto degli autori firmava gli articoli riportando esattamente la sua posizione lavorativa ufficiale. Nel senso che molti cultori della fisica, provenienti dal mondo della scuola, firmavano invece la produzione accademica riportando come posizione lavorativa quella universitaria, per ovvie ragioni di “immagine”.
In Europa, la situazione italiana era simile solamente a quella tedesca. La percentuale relativa dei lavoratori, accademici e non accademici, “della conoscenza” (“knowledge worker”), in questo caso scientifica, era approssimativamente la stessa nei due Paesi. In entrambi, si assisteva a una forte ripresa politico-economica; in Italia, ciò accadeva con l’autoritarismo di Crispi e, poi, con il “dirigentismo” di Giolitti. I dati sulla scuola italiana di questo periodo storico sono stati raccolti principalmente da Dina Bertoni Jovine in “La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri”, ma altre fonti confermano i dati qualitativi riportati (Bertoni Jovine D., “La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri”, Laterza 1961; Chabod F., “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896”, Biblioteca Universale Laterza, 1997; Hobsbawm E.J., “L’Età degli imperi 1875-1914”, Laterza, 1987).
L’attività docente nella scuola si svolgeva in grande simbiosi con quella universitaria. Molti dei fisici divenuti poi celebri, ad esempio, erano cresciuti come ricercatori e docenti nella scuola (lasciando in eredità, com’è noto, il loro nome agli istituti stessi). Non stupisce affatto, quindi, che molti cultori della fisica divennero assistenti o incaricati all’università (per i pochissimi posti disponibili) e, nel contempo, fossero attivamente impegnati nell’insegnamento presso la scuola secondaria. L’attività di ricerca disciplinare rendeva l’insegnamento fertile e creativo, sempre rinnovato rispetto a qualunque tipo di programmazione didattica. Insegnare era stimolante perché stimolante era la ricerca, e chi partecipava alle lezioni viveva “direttamente l’eccitazione continua” dello scienziato perennemente ricco di idee e progetti innovativi.
Non c’è ragione di pensare che questo sia accaduto solamente per la fisica o per le scienze. In fondo, le cattedre umanistico-letterarie hanno sempre spadroneggiato nelle università. Visti, poi, i dati relativi ai limitati finanziamenti per la ricerca (circa il 0,12% del PIL nazionale nel 1910), è facile immaginare che poeti e letterati della nostra giovane Italia si procurassero da vivere svolgendo attività nelle scuole.
Questa dimensione “globale” di superamento della barriera tra le famose “due culture” (nel senso che tutti, naturalmente, condividevano i propri spazi culturali), estesa a tutte le scienze e alle discipline umanistico-letterarie, rappresenta un’interessantissima dimensione culturale: l’interazione e l’integrazione dei saperi era prodotta dall’ambiente, si respirava nell’aria, e non era frutto di una progettazione pedante e forzosa della flessibilità didattica. Si trattava di una sinergia nata spontaneamente fra tutte le componenti sociali coinvolte nella formazione.
Una riflessione è d’obbligo.
In Italia, l’analfabetismo, subito dopo l’Unità d’Italia, era superiore al 75%; all’insorgere della prima guerra mondiale, invece, risultava ridotto al 30%. L’analfabetismo, di cui si parla in questo caso storico, è quello tipicamente “tradizionale” o “strumentale”, cioè determinato dalla incapacità di leggere e compitare una parola o qualche semplice frase. La tentazione di correlare tale condizione di ignoranza all’ambiente scolastico è molto forte. Ovviamente, ciò non può essere fatto in modo così lineare. In fondo, il mondo della scienza ufficiale e il mondo dell’analfabeta non erano certamente scossi dalle rispettive “culture” (oggi diremmo, la “cultura formale” e la “non cultura”, o per usare un linguaggio più attuale per quest’ultima, “cultura informale”); anzi si ignoravano del tutto, quasi come oggi. Alla fine del secolo scorso, esisteva un abisso fra queste “due culture” e, certamente, la barriera non poteva essere superata per troppe ragioni: la classe borghese imprenditoriale del Nord e i latifondisti del Meridione non avevano nulla da spartire con le classi operaie e contadine; al contrario, come è noto, i primi si nutrivano del lavoro agricolo e operaio (e con esso nutrivano il loro potere). L’unica possibilità, allora, per superare la barriera era quella di attraversarla (con una specie di effetto tunnel). Ciò fu possibile per il fatto che la condizione politica e, soprattutto, economica (del tutto sfavorevole alla ricerca) costrinsero una forzosa osmosi fra scuola e ricerca. Fu un momento particolare in cui la “totalità storica” creò una mirabile singolarità nel flusso degli “eventi storici”. Singolarità prodotta dal sistematico intrecciarsi di interessi personali e sociali.
È possibile che la storia si ripeta? Ma soprattutto, saremmo costretti ad affamare la scuola e la ricerca (con un maggior discapito della seconda), come si verifica di nuovo e da tempo, per avere una “singolarità storica”? Saremmo in grado di costruire una struttura culturale che non riduca a singolarità storiche la creazione di un ambiente simile a quello ricordato, che altrove ho chiamato “processo di Snow”?
Oggi, molte scuole lavorano in tal senso, producendo pratiche decisamente pionieristiche. Alcune proposte, in questa direzione, sono venute da Experimenta, che ha elaborato, nell’interesse del Comitato per lo Sviluppo della Cultura Scientifica e Tecnologica, il “documento Berlinguer”, come piace ricordarlo agli autori per la passione con la quale Luigi Berlinguer ha seguito e stimolato il gruppo di lavoro. In tale documento, la “cittadinanza scientifica”, la “cultura della scelta” e la “laboratorialità” sono concepite come le tre dimensioni di un “ambiente vivo e creativo”, deputato alla crescita di una persona consapevole e competente, dove “ricercatori, insegnanti e lavoratori” di ogni tipologia di azienda siano protagonisti inseparabili di un vero e sano “processo di Snow”.
Arturo Marcello Allega