Proposte per l’in-stru?re.

Istruzione viene dal latino ‘in- stru?re’, cioè “costruire-in”. Dal Garzanti: “in” indica fondamentalmente “collocazione in un ambito”, ma anche “spostamento che conduce in un ambito” e “incontro con qualcosa o con qualcuno”; l’ambito può essere, in senso proprio, spaziale o temporale, o costituito da condizioni materiali o ideali, stati d’animo, atteggiamenti e simili: le espressioni acquistano così significati autonomi, di modo, mezzo, materia, limitazione ecc. (non sempre facilmente distinguibili).

L’azione dell’istruzione è quindi complessa. Immaginiamo l’istruzione come una “scatola bianca” (‘white box’, che per la sua anima costruttiva distinguiamo volutamente dalla ‘black box’) costituita dalle relazioni complesse determinate dai contesti, dai protagonisti e dalle interazioni degli uni con gli altri. Quel che ci aspettiamo è che qualcosa entri nella scatola per poi lasciare uscire un risultato.

Nel modello classico di istruzione, nella scatola entrava la conoscenza ed da essa usciva un cittadino ‘maturo’ (vecchi Esami di maturità, appunto). Per il modello di Croce e Gentile doveva uscire da essa un dirigente o un operaio (a seconda dell’indirizzo seguito): nel primo caso, un cittadino con conoscenze articolate (discipline intensive come l’Italiano, la Matematica, la Fisica, il Greco e il Latino) per coordinare, gestire e dirigere (competenze superiori, che comunque nella loro rigidità imponevano una deontologia dell’apprendimento forzata con evidenti livelli di astrazione); nel secondo caso, un cittadino con conoscenze indirizzate alla praticità manuale (competenze pratiche in virtù delle discipline tecniche intensive quali l’Elettronica, l’Impiantistica, la Contabilità, …). Libri di testo rigidamente cartacei, con un filo conduttore monolitico, sequenziale e immutabile.

Oggi, invece, cosa entra e cosa esce dalla scatola bianca, dalla scuola di massa alla scuola dell’autonomia (entrambe essenziali ad una scuola del futuro)? Entra un nativo digitale (come più volte sottolineato, antropologicamente diverso – vedi l’ignoranza quantica) con delle “indicazioni nazionali” ed esce un profilo ricco di infinite competenze parziali, inadatto all’inserimento universitario ed al mondo del lavoro (per il paradosso incredibile generato dalla forbice tra la riduzione massiccia oraria della preparazione laboratoriale a scuola con le nuove riforme e la inalterata convinzione delle aziende che all’uscita dalla scuola lo studente deve iniziare un percorso di formazione che solo l’azienda può dare).

E non tocchiamo, per ora, il tasto della formazione “etica”, che non sembra produrre risultati sui comportamenti e sulle scelte della persona (ad esempio, “eticamente corretta” sul lavoro, per non parlare nella vita), influenzata, come sappiamo, da molti altri contesti.

Cosa manca a tutte queste riforme? Il grande assente dell’istruzione odierna è l’epistemologia. L’epistemologia è lo studio dell’episteme o, oggi, con l’evoluzione della lingua e del pensiero fluido, degli epistemi. Questa scienza si può distinguere in due fondamentali approcci: quello che crea e distrugge epistemi con l’evoluzione del sistema culturale e sociale (sostituisce vecchi epistemi con altri nuovi – si pensi a quelli ‘naturali’ del nativo digitale) e quello che, invece, gestisce gli epistemi e le loro relazioni nella loro evoluzione sistemica (tipica di quella che potremmo definire oggi il livello nobile del “knowledge management”). Mentre, capisco, sarebbe estremamente difficile intervenire sul primo approccio (perché codificato da una storia millenaria dei “fondamenti culturali” delle diverse discipline, arricchita da scoperte ed invenzioni sopraggiunte nel tempo), è piuttosto ben noto il ricorsivo riformulare del secondo. E, oggi più che mai, sarebbe già essenziale riorganizzare gli epistemi attuali.

L’analfabetismo incipiente mostra che il problema dell’istruzione è radicale: occorre riorganizzare la conoscenza in entrata, per garantire che si sviluppi quella insostituibile capacità ad astrarre, ‘necessaria alla ragione’, affinché sia finalizzata a comprendere quali scelte operare in un contesto civile nel quale la persona, appunto, si senta parte (e non esclusa). Occorre, quindi, mettere mano al curricolo con un’operazione che coinvolga esperti della cultura, come una volta fece Luigi Berlinguer con la Commissione dei Saggi (e non sarebbe male rileggere quel bel volume), magari con il contributo essenziale di protagonisti della scuola (ma quelli che sul campo fanno ricerca come su molte riviste, e tra esse Education 2.0, o sono impegnati intensamente in Comitati nazionali come il Comitato per lo Sviluppo della Cultura scientifica e tecnologica). Ed, infine, ascoltarla (come non fu allora)! Se, per esempio, una Commissione ad hoc indicasse il bisogno della Logica e della Filosofia della Scienza, come trasversali ad ogni tipologia di studio, occorrerebbe strutturare un percorso in verticale, senza ridondanze nelle diverse fasi della crescita, che ponesse a fondamento della formazione la logica attraverso le sue infinite modalità di costruzione.

Oggi, la situazione resta immutata solamente per il Liceo classico, che non ha subito riforma alcuna, se non per il disastroso calo dei livelli di apprendimento indotti dall’analfabetismo incipiente. E gli effetti sono visibili nell’abbandono di questo tipo di studi.

Resta, inoltre, evidente che, quindi, non è un problema metodologico, ma proprio di contenuti, correlato ad una nuova versione epistemologica del problem posing e del problem solving (penso ad esempio agli insegnamenti di Polya).

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Arturo Marcello Allega