Ultimo giorno di scuola, pensando al primo
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Comincio a presentarmi dicendo di essere un’insegnante da ormai molti anni in questa scuola. Poi dico la materia che insegno. “Ah, solo religione” sento dire da qualcuno. Faccio finta di non aver sentito, ormai abituata a sentire queste esclamazioni o altre come “Che dobbiamo comprare il libro di religione?”. Oppure “Ma anche a religione si fa il compito in classe?”.
Entro in classe, una prima della secondaria di primo grado, circa cinquanta occhietti mi guardano incuriositi, usciti dalla quinta elementare sono al loro primo giorno di scuola media. Mi sembra di sentirli i loro pensieri, “Che insegnante sarà? di italiano, di matematica, o di che altro…?”. Vengo ispezionata dai capelli alle scarpe, qualcuno azzarda una parolina all’orecchio del compagno/a per tornare poi con lo sguardo su di me. Dico alla classe di sedersi aiutata dal gesto della mano e da un sorriso. Il rumore delle sedie per un attimo è prevalente, poi mi seggo anch’io e li guardo in silenzio. Poso il mio sguardo su ognuno di loro, e ognuno di loro si ricompone non appena i miei occhi li sfiorano.
Penso “Sono dei cuccioli, un po’ spaesati, ma attenti a ogni movimento, atteggiamento o elemento che si muove intorno a loro, sono nella fase dell’osservazione e dell’esplorazione”. Sorrido di nuovo e chiedo “Sapete chi sono?”. “No” rispondono guardandomi. “Sapete che sono un’insegnante però?”. “Sì” rispondono come se avessi detto una banalità. “E quale materia pensate che io insegni?”. Quelli più vivaci, si notano subito dall’atteggiamento, sentono aprirsi una porticina della conversazione e vi ci si infilano a gran velocità. “Matematica!” urlano. “No, Italiano!” dice qualche altro. “Noo, sicuramente o Spagnolo o Inglese!” azzardano altri.
La gara è iniziata. Guardo le bambine, l’atteggiamento quasi sempre più composto e scrupoloso dei maschi, invitandole con lo sguardo a dire anche loro cosa pensano, ma sono titubanti, mi rispondono con un filo di voce. “Non lo so”.
Mi alzo e passo davanti alla cattedra, non so perché ma in quella posizione mi sento più vicina a loro, è come se riuscissi a eliminare il dislivello che c’è tra l’insegnante e l’alunno e ad aprire una via di comunicazione più aperta e vera.
“Bene” dico guardandoli e sorridendo, visto che non ci conosciamo, perché, sapete, neanche io conosco voi, questo primo incontro servirà proprio a questo, a presentarci e a raccontarci qualcosa di noi. “Comincio io?” dico con tono scherzoso. “Sì professore’, comincia te” dice il più coraggioso. “Ma che ‘Comincia te!’… ‘Cominci lei!!!’ mica è tua sorella!” risponde un altro. “Allora comincio io” dico accomodante.
Comincio a presentarmi dicendo di essere un’insegnante da ormai molti anni in questa scuola, di aver avuto probabilmente anche i loro fratelli o sorelle più grandi. A questo punto molte mani alzate che chiedono d’intervenire. Alcuni non ce la fanno ad aspettare e mentre hanno ancora la mano alzata dicono nome e cognome dei relativi parenti più prossimi che probabilmente hanno frequentato la scuola, e mi chiedono se li conosco. A qualcuno rispondo “Sì, l’ho avuto qualche anno fa”. “Com’era professore’” subito chiedono. “Era un bravo ragazzo” rispondo veloce tentando di non inoltrarmi in queste speculazioni, poi proseguo la mia presentazione.
(Mi viene in mente quando ho cominciato io la scuola in una classe in cui non conoscevo nessuno ma era stata frequentata da uno dei miei fratelli più vivaci il quale aveva dato filo da torcere agli insegnanti, e durante il primo appello l’insegnante si soffermò sul mio cognome alzando lo sguardo su di me un attimo di più che sugli altri proseguendo poi fino all’ultimo nome della lista. Mi sono subito chiesta se era un bene o un male, l’ho scoperto subito dopo quando guardandomi, nel silenzio della classe disse: “S… speriamo che non sei come tuo fratello!”. Avrei voluto sprofondare, tutti gli sguardi dei compagni di classe che ancora non conoscevo, in un attimo erano su di me. Mi sentivo le guance rosse, qualcuno azzardò sottovoce con un mezzo sorriso ironico “Che ha fatto tuo fratello?”).
Alla fine dico la materia che insegno.
“Ah, solo religione” sento dire da qualcuno. Faccio finta di non aver sentito, ormai abituata a sentire queste esclamazioni o altre come “Che dobbiamo comprare il libro di religione?”. Oppure “Ma anche a religione si fa il compito in classe?”.
Vedo una manina alzata, la guardo e dico al proprietario “Sì?” invitandolo a parlare. “Io sono testimone di Geova” dice con un filo di voce quasi non volesse farsi sentire dai compagni. “Va bene, poi parleremo di questo, oggi è il giorno della conoscenza e io voglio conoscere anche te. Fai parte della classe vero?” chiedo con un sorriso legittimando la sua partecipazione a questo momento di interazione. “Sì professore’, perché lui non fa religione, è testimone di Geova! Non la faceva neanche alle elementari!” interviene un compagno credendo di aiutarlo. “Va bene, ma oggi non faccio lezione di religione, ma dobbiamo solo conoscerci!” ripeto io con tranquillità guardando l’alunno testimone di Geova con un sorriso, lo vedo tirare un sospiro di sollievo e assumere un’aria rilassata.
Dopo aver finito la mia presentazione chiedo a ognuno di loro di fare altrettanto esprimendo, possibilmente, anche i loro hobby. Alla fine della presentazione i ragazzi che si sono vivacizzati tanto da dover chiedere, con un gesto della mano accompagnato da un sorriso, di ascoltarmi in silenzio ancora un attimo perché ho una cosa importante da dire, intanto come al solito vado davanti alla cattedra, li guardo con serietà e aspetto. Uno alla volta i ragazzi smettono di parlare qualcuno sollecitato dal compagno a fianco a fare silenzio.
“Visto che cominciamo a conoscerci vi devo confidare che ho un problema” li vedo attenti, non riescono a capire cosa intendo dire. “Sapete” continuo io “io in tutto ho circa cinquecento alunni che vedo solo una vota alla settimana, e la mia difficoltà più grande è quella di ricordare i nomi”. “Professore’, non si preoccupi, l’aiuteremo noi, la prossima volta scriveremo i nostri nomi su dei cartoncini e li metteremo sui nostri banchi”. “È proprio quello che volevo chiedervi, vi ringrazio, alla prossima volta”.
Esco dalla classe pensando a cos’altro potevo fare per rendere rilassante l’atmosfera nella mia ora di lezione e mi dico che forse ho fatto quello che potevo.
Lucia Santucci