Ritorno alla realtà
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L’introduzione delle tecnologie nella scuola non deve distrarre gli educatori da una profonda riflessione pedagogica sul loro mestiere, bisogna cioè ridare misura e ordine a quelli che sono i fondamentali e a ciò che è strumento del lavoro educativo.
Non so quanti tra di noi educatori si sono accorti di una deriva educativa che non è solo produttivistica, ma anche tecnologistica. Essa sembra imperversare non solo nelle aule scolastiche, ma anche in quelle universitarie. A scanso di equivoci, chi scrive non è certamente fautore di un ritorno nostalgico a lavagna e gessetto, ma molto più proficuamente interessato a una breve riflessione sullo stato dell’arte delle nostre istituzioni formative in relazione a certe impostazioni e pratiche educative.
In un periodo di incertezza non solo economica, ma anche politica, ideologica, culturale ed educativa, è sembrato conseguente e opportuno alla nostra classe dirigente ancorare le sparse e fragili membra del nostro sistema educativo ad alcuni capisaldi ritenuti “fondamentali”, ripresi dall’immaginario (che è anch’esso più concreto e realistico di quanto il termine da noi adottato faccia trasparire) aziendalistico dell’economia tardo-capitalistica: efficienza ed efficacia non solo dell’educazione in se stessa, ma soprattutto del sistema educativo che, per quanti provengono dall’industria tardo-capitalistica o dalla sua finanza globalizzata, sarebbe più corretto e giusto chiamare sistema formativo. Molti docenti e dirigenti si sono lasciati irretire e ammaliare da queste nuove parole d’ordine, da questo nuovo Vangelo. È anche vero che fino ad ora richiami alternativi a tali “direttive” e “direzioni” se ne sono visti ben pochi, per non dire nessuno, di qualche importanza contestatrice. Si tenta di eliminare e superare contraddizioni e soprattutto difficoltà inerziali “residuali” e latenti nelle istituzioni formative nazionali di fronte a questa che potremmo definire la sbornia tecnologistica, addebitandone la responsabilità a una imprecisata, vaga e supposta “debole” più che verificata apertura mentale culturale ed educativa dei nostri docenti alla così detta modernità. Si è preferito enfatizzare la necessità di un recupero strumentale più che metodologico nel campo delle tecnologie informatiche piuttosto che porsi il problema di affrontare e sciogliere il nodo strategico molto più impegnativo e complesso dell’aggiornamento e della formazione non solo culturale ed educativa del personale docente, dirigente (e universitario). D’altra parte è anche vero che la riaffermazione e riproposizione massiccia ed eventualmente intensiva di riorientamento e riqualificazione professionale in senso tecnologico e soprattutto informatico e multimediale contribuisce non poco alla costruzione e al consolidamento non solo di una immagine pubblica propagandisticamente spacciata per “rivoluzionaria”, ma anche di un progetto tutto ed esclusivamente ideologico di sviluppo ed innovazione imposto, egemonizzato e monopolizzato da una industria non solo culturale e non solo nazionale. Tale progetto sembra volto al contemporaneo perseguimento e rafforzamento di una logica capitalistica sia materialmente che “spiritualmente” (cioè ideologicamente) intesa.
Il cavallo di Troia delle tecnologie non viene neanche più nascosto o dissimulato, ma apertamente esibito a un esausto e spossato pubblico docente a quanto pare, ma forse l’apparenza inganna, non difficilmente convinto della suprema bontà strategica e “post-moderna” che tale cavallo promette e irradia: l’illuminazione e la diffusione dell’imperativo categorico dell’efficienza e dell’efficacia del postulato neo-tecnologico alla cui fonte, se si vogliono ancora annoverare tra gli “integrati” e soprattutto tra i post-modernisti più che modernisti, docenti e dirigenti sono tenuti obbligatoriamente ad abbeverarsi. In tale devastante programma “illuministico”, piovuto e imposto dall’alto, non vi è la minima considerazione di un pensiero critico e divergente alternativo. Prendere o lasciare, essere o non essere. È ovvio che chi non si associa, non si arruola e non si intruppa nell’esercito regolare, legale ed ufficiale della Salvezza Tecnologica non solo informatica, automaticamente diviene un disertore o peggio ancora un eretico o un sovversivo che non si lascia illuminare dal sole dell’avvenire del progresso tecnologico, scientifico ed educativo. In questa prospettiva così luminescente, tecno-scientista e tecno-cratica dell’educazione non vi può essere e non vi è alcun spazio per una pedagogia critica che, a partire dagli allievi e dai docenti, possa contribuire a squarciare il velo ideologico delle ipocrisie capitalistiche e a rilanciare un discorso demistificante negli allievi al fine di sollecitare e incentivare una fuoruscita critica dai modelli e dagli schemi conformistici e passivizzanti propri di un sistema che non persegue l’obiettivo di educare all’attività critica, ma quello di “formare”. “Formare” nel senso aziendalistico e capitalistico di dare, produrre e imprimere una “forma” eteroguidata a quella “materia” grezza, amorfa, inerte e passiva così “efficientemente” ed “efficacemente” identificata nel corpo “vile” dei discenti. Allora se “formare” vuol dire apporre, imporre, ma soprattutto imprimere (e reprimere) “una forma” al “materiale umano” costituito dal discente, allora ecco che appare, anzi riappare inevitabile oltre che necessario porre al centro della scuola e dell’università il valore supremo dell’ “educare”, pur con le sue intrinseche e millenarie contraddizioni. L’educazione come luogo e progetto critico contro le contaminazioni conformistiche del sistema di potere non solo tecnologico, contro il contagio dell’anoressia aziendalistica e tardocapitalistica con i suoi annessi e connessi territorialistici e distrettualistici, contro le subdole e latenti infiltrazioni dell’industria culturale e soprattutto contro l’estetica della merce e le sue infrastrutture “ambientali” e mentali caratterizzate da un potere obliante, dissipante e dissolvente.
Gennaro Tedesco