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Riflessi di valori e qualità nella scuola italiana

Pubblicato il: 15/06/2012 17:23:58 -


Propongo una riflessione a tutto il mondo scolastico, dall’infanzia all’università, questo mio scritto che dalla sua prima stesura e pubblicazione nell’aprile 2000 in una pioneristica rivista telematica (Post programmando) è stato riletto e riproposto altre volte senza sostanziali modifiche nonostante il passare del tempo. Dopo 12 anni i temi sono ancora gli stessi e i problemi restano. La valutazione della persona in formazione e del suo sapere e saper fare è ancora un tabù ed è una questione irrisolta, mentre permangono errori, diseguaglianze, metodi che passano per scienza mentre continuano a procurare danni alla conoscenza, al talento e all’istruzione in generale, ma soprattutto al mondo del lavoro e alla vita stessa che si aspettano dal mondo della formazione persone competenti e autonome.
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Poiché in questi momenti di profonde mutazioni, che passano ahimè ancora per ridondanti “letture burocratiche” e adempimenti incalzanti, non ci è concesso il tempo di soffermarci a riflettere, mi è parso utile affrontare alcune “parole calde” in una specie di brainstorming in rete, più per evocazione che per filosofare o proporre dotti saggi.

I modelli valutativi possibili, dalla scuola dell’infanzia fino all’università. pare si possano raggruppare in due grandi famiglie antagoniste: quella fenomenologico-narrativa o “della persona” e quella positivista e docimologica o “del prodotto”.

Il trionfo ancora non celebrato e la teorizzazione mai abbandonata della scuola efficiente e produttiva ha una origine “stigmatica” nelle valutazioni, sicuramente di impronta economica dell’OCSE nei confronti dei sistemi scolastici dei paesi aderenti e dell’infondato ma crescente complesso di inferiorità della cultura mediterranea nei confronti di quella anglosassone, mitteleuropea e anche più semplicemente esotica. Il pensiero politico sedicente avanzato pretende di eliminare i formalismi burocratici sostituendoli con formalismi tecnocratici ed efficientisti, dove il problema principale non è la crescita dell’uomo ma l’occupazione “a prescindere” e la scuola non è magistra vitae ma luogo di garanzia per le conoscenze, le competenze e le capacità che il mercato unico globale, ancorché morente, richiede nei suoi accessi liberisti.

Per fortuna la globalizzazione che tutto pretende di assorbire e asservire sta mostrando enormi e insanabili crepe economiche, politiche e ideologiche.

Il punto di vista non è reazionario e conservatore nel senso di non credere che debbano esserci cambiamenti nella scuola. Ma è forte la convinzione che tutte le riforme ormai ineluttabili come “salvavita” della scuola, non solo italiana, debbano essere auto-riforme leggere e diffuse in modo reticolare e non gerarchico, per ampia convinzione e condivisione nel ritenere il momento educativo un “dialogo” tra soggetti, un racconto pieno di imprevisti e la valutazione un processo di reciprocità e di consapevolezza di sé e del mondo, e della storia in vece di una osservazione scientifica pur sempre ex-cathedra per un giudizio finale inappellabile ex-technica.

In questo contesto di innovazioni reali o apparenti, possibili o pretestuose, appare sempre troppo realistico il transfert dalle discipline economiche che va oltre il linguaggio,fin dentro la sostanza del fare scuola.

Si va affermando una pericolosa identità tra processi e percorsi mentre si cerca di valutare i primi per sottovalutare i secondi, con gli apporti perniciosi di certo psicologismo nei segmenti base della scuola e l’assenza totale di una qualsiasi pedagogia nell’istruzione superiore e universitaria. Così si complica e rende virtuale o patologico ciò che è nella natura delle diversità e prende piede una diffusa automatica docimologia che pretende di misurare anche il rapporto educativo rendendolo semplicistico e legato ai quanti e non anche ai quali.

A questo punto è importante la memoria del “valere” contrapposta al “validum facere”.

La bontà generica di alcuni principi come quelli della continuità educativa dell’autovalutazione e della necessità di poter spendere nella vita ciò che si è appreso, si scontra nella prassi indotta da una serie di riformette improvvisate con connotazioni a volte contraddittorie tra le pretese oggettive di valutazione, i rigidi schemi di misurazione e l’imprevisto di un cammino educativo che valorizza e valuta anche l’errore come erranza e ricerca, che nel dialogo tra persone (anche tra chi appende e in-segna) può emergere e veramente valorizzarsi.

L’esigenza del mercato dell’istruzione e della persona intesa essa medesima come bene che non si consuma non potranno mai coincidere.

Sarà comunque quella stessa persona, divenuta colta, abile, aperta, a trovare la sua via esistenziale e il suo ruolo per la collettività intesa anch’essa come insieme di persone, non di interessi economici su cui un certo liberalismo della concorrenza in tutti i campi è fondato.

In questa accezione infatti anche la valutazione si fonda sulla furbizia e sulla prevaricazione nelle gare di mercato e non sulla saggezza e sull’impegno disinteressati e autenticamente autonomi. Si tratta di una valutazione “su” non “con” e il soggetto che diventa così inevitabilmente oggetto.

Nel significato della terminologia è anche l’essenza dell’azione valutativa.

Essa può essere condivisione della propria identità e della propria comune competenza tra docente e discente oppure una modalità tecnica di fissare temporanei momenti di consuntivo tra “debiti e crediti” storicizzati e circoscritti, senza che siano considerati episodi di un continuum narrativo, orientante ed educante.

La cosiddetta autovalutazione può essere invece dialogo crescente e ricerca reciproca, processo non lineare e gerarchico ma reticolare ed anche ex-centrico, anche se comporta competenze eccezionali e solide nei docenti, anche se alla fine dovrà gioco forza tradursi in un giudizio e in un numero.

Può essere un processo di acquisizione di valori e non meramente crescita tecno-fisiologica o accumulo di competenze che determinano anche l’invecchiamento della persona e dell’apprendere. Quale nesso vi può essere tra la consapevolezza di sé e del mondo e quell’immagine oggettiva che la nuova-vecchia società economica pretende come fotografia del sapere e del saper fare, utilitaristica chiave di volta per il lavoro e il mercato?

La globalizzazione dei problemi e degli interessi fa perdere la vera autonomia che è quella intellettuale e culturale a vantaggio di una autoregolamentazione delle procedure insite nell’insieme di sistemi dell’istituzione scuola per un servizio che garantisca un prodotto di qualità per “efficacia, efficienza ed economicità”, non già “per sostenibilità, compatibilità, coerenza e libertà”.

Tutto il contesto valutativo dell’offerta formativa lungo l’intero percorso della vita, della professionalità docente e non docente, disillusi passeggeri del Caronte traghettatore verso un “nuovo” indotto da altri, punta diritto alle concezioni pragmatiche di una “scuola unica” ingenuamente funzionale e pericolosamente classificatoria in tutte le sue componenti, innescando perniciosi processi di competizione e di autopropaganda.

Così si favorirà la spinta a un concetto di qualità mutuato dall’organizzazione aziendale e tristemente già sperimentato altrove, dove la qualità diventa di fatto una travestita quantità, l’unica che può essere misurata da griglie, test e questionari.

Tutto ciò, per perseguire la garanzia del successo formativo e scolastico in particolare che rende ambigua la libertà di scelta dell’individuo a decidere del proprio progetto di vita, per assurdo verso gli insuccessi dell’attitudine al lavoro a vantaggio del successo della persona.

Da un diverso processo di insegnamento-apprendimento-valutazione, potrebbe derivare una persona, più consapevole ma anche connotata da maggior flessibilità, la flessibilità che può solo dare l’essenza dei valori acquisiti per conoscenze fondate e capacità, spiritualmente profonde, di ricerca per giungere a conoscenze non definite e definitive.

In una teoria storica semplificata, il modo di concepire la scuola si è fatto prima prevalentemente mistico e poi umanistico, quindi razionale e illuminato, poi ancora spirituale e infine scientifico, tecnico e tecnologico per diventare e consolidarsi come tecnico ed economico, riducendo anche la creatività, virtù trasversale e fenomenale, a fattori economici, globalizzati e tesi al successo e al profitto.

Occorre pensare che invece l’uomo non muta nell’essenza: quello che muta è, passatemi la brutta tecnologica parola, l’interfaccia con il reale e le sovrastrutture che non è assodato siano buone per lui quando lo sono per il mercato. Se l’uomo che insegna e quello che apprende sono cambiati è nel rapporto con un reale fisico che si fa sempre più virtuale ma non virtuoso: del resto i loro comportamenti sono sorprendentemente gli stessi descritti anche da Socrate per bocca di Platone.

Che gli strumenti valutativi allora restino strumenti indifferenti ma limitati a episodi e non determinanti, aperti, rispetto ai fondamenti dialogici dell’educazione e dell’istruzione. Così potranno comunque far trasparire la loro vera qualità durante il racconto di cose fatte, di emozioni condivise e di conoscenze profondamente scoperte e assimilate ma anche creativamente utilizzate all’occorrenza dell’esercizio e della vita.

In un contesto di valenze e misure suggerite per rendicontare tutto, dal sapere all’essere, sfugge che nella scuola come nell’università l’essenziale è l’uomo come pluralità di soggetti: che apprende, che insegna, che guida senza dipendenze ma con relazioni e reciproche narrazioni, mai con indifferenza o supponenza.

Da qui e solo da qui può avere luogo una riforma autorigenerante del nostro sistema scolastico.

L’assenza di entusiasmo innovatore fa ricadere su se stesso qualsiasi movimento indotto dall’esterno in un riavvolgersi inerte e ad libitum.

Nessuna riforma ex machina potrà avere successo; lo dicono anche i discorsi attuali di quelle genti della scuola che anelano a quel nuovo che fa tesoro della memoria positiva e della storia, di quel quid che è al di sopra delle parti e per fortuna non rischia l’obsolescenza.

Se poi non ci si muove con juicio avremo già i primi giudizi di valore lapidari come quelli sugli accanimenti pedagogici delle sperimentazioni “indotte” dall’alto o le resistenze di docenti che si sentono cavie impreparate per le nuove incombenze proposte nella buona fede di innescare giusti e tardivi progressi ovvero precoci e pericolosi esperimenti in vitro avviati, a mio parere, senza lasciar tempo alla necessaria, laboriosa, comune riflessione.

Sono queste le ipocrisie di un presuntuoso rinnovamento, in una autonomia che può tranquillamente essere ancora autoreferenzialità o guinzaglio lungo di un centralismo del sapere che manifesta nel tempo le sue multiformi apparenze, funzionali sovente a una idea aliena al mondo della scuola.

La vera rivoluzione, se ha da essere, può avere origine solo dalla storia del pensiero libero che si evolve, facendo tesoro dei successi della pratica, e delle conoscenze dello studio, dal confronto continuo sul campo, che pure c’è sempre stato, soprattutto nella scuola che e-duca e in-segna non in quella che ad-destra alla competizione.

Guai alle traslazioni disciplinari mascherate da utile contributo, anche solo linguistico: budget, know-how, interazione, ottimizzazione, approccio, obiettivo, programma, motivazione, delega, modello e ancora, orrore degli orrori: diagnosi, competitività, strategia… perché sta diventando una babele perniciosa, se ogni dialogo si deve avviare con una preventiva, spesso inutile, traduzione.

Guai a valutare chi ha valore, ma non può farsi valere per mancanza di orientamento, di ruolo, di strumenti, di risorse e di convinzione.

Propongo una migrazione attraverso il repertorio storico delle buone cose della scuola e una antologia ragionata dei punti fermi che possano aiutarci a concepire la qualità come essenza a perseguirla senza schemi e programmi quando essa si muove e si evolve. Sarà allora più facile valutarla come “valore” anticonformista e non come convenzionale “validità”.

La ricerca è ancora aperta perché le certezze credo non possano esistere in campi che intersecano il fisico e il metafisico, l’etico e l’estetico. Spero che chi opera nel mondo dell’istruzione a tutti i livelli e lungo tutto l’arco della vita dell’apprendere sappia che non si lascia ai soli numeri il compito di tirar fuori l’essenza di un solo momento dalle persone per classificarle per sempre rischiando di compromettere il talento che c’è, ma non viene visto per incompetenza o superbia.

Giuseppe Campagnoli

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