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Progettare a scuola

Pubblicato il: 06/10/2010 16:24:00 -


La scuola italiana dell’autonomia sviluppa annualmente un grande numero di progetti. Le esperienze scolastiche sono difficilmente esportabili e le così dette “buone pratiche” non sono considerate tali per una decisione terza di qualche agenzia valutatrice, ma sono un’autodichiarazione della scuola stessa. Questo porta a considerare la descrizione dei progetti realizzati come forme di autoaffermazione.
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La scuola italiana dell’autonomia sviluppa annualmente un grande numero di progetti. Molto spesso con il termine “progetto” si denominano anche arricchimenti curricolari o attività pagate da terzi (Regione, Province, Comuni, Ansas, ecc.) o attraverso il Fis non necessariamente progettuali. Una vera valutazione dei progetti non c’è, perché ogni autovalutazione descrive esiti positivi, mentre i risultati ottenuti non sono verificati da nessuno. Nell’attuale periodo storico la progettualità è diventata la base per risolvere i problemi e la scuola ne ha molti: tagli strutturali, carenza di flessibilità, modesti risultati dei suoi alunni nelle rilevazioni nazionali e internazionali, problemi di comunicazione, vetustà delle risorse strumentali, mancanza di innovazione, debolezza della ricerca. Tutti questi sono argomenti noti e dibattuti, macroproblemi che possono essere affrontati solo a livello di sistema, ma che le singole istituzioni scolastiche possono contribuire ad aumentare o diminuire con i loro comportamenti e le loro progettualità. In realtà pare invece che si stia sviluppando una stasi progettuale, con la ripetizione dell’identico e difficoltà notevoli nel settore innovativo.

La mia “critica” alle modalità progettuali della scuola italiana riguarda anche le due scuole che dirigo, che continuano a privilegiare la progettualità ripetitiva (che quindi non è più un vero e proprio progetto) a quella innovativa. Per cui la mia critica è in primo luogo un’autocritica, che mette in evidenza come spesso noi dirigenti diamo l’autorizzazione all’avvio di progetti che non condividiamo, ma che traggono la loro legittimità dalle proposte dei docenti e dal voto dei collegi. Alla base di questa situazione c’è anche il modo con cui i progetti vengono retribuiti: a ore svolte e non a risultato raggiunto. Credo che solo nella scuola avvenga questo e che un progetto venga pagato per il lavoro che ha determinato indipendentemente dai risultati raggiunti o non raggiunti. Inoltre il contratto collettivo impone di pagare con il Fis la flessibilità, anche se la flessibilità è uno degli scopi dell’autonomia. Tutto questo toglie risorse all’innovazione, che infatti tende a languire.

Non penso sia semplice uscire da questo imbuto, ma segnalo che l’involuzione tende a continuare. Su www.educationduepuntozero.it un sondaggio chiedeva quali erano gli argomenti più graditi dai lettori e la maggioranza ha risposto che gradiva conoscere le esperienze delle altre scuole. È cosa nota però che le esperienze scolastiche sono difficilmente esportate e che le così dette “buone pratiche” non sono considerate tali per una decisione terza di qualche agenzia valutatrice, ma sono un’autodichiarazione della scuola stessa. Questo porta ad avere una bassa credibilità sulla competenza critica o autocritica delle scuole ed una realizzazione di siti non leggibili come tali, ma solo come forme di autoaffernazione. Per questo credo che tutte le scuole siano disponibili a mettere on line i propri progetti, ma non a farne valutare l’efficacia da terzi.

Sarebbe interessante proporre una valutazione esterna anche sui progetti (magari con la metodologia dell’Invalsi) e vedere che esiti renderebbe pubblici. Inoltre sarebbe utile conoscere in che modo la vasta progettualità scolastica italiana incide sulla valutazione degli alunni. Molto spesso progetti che prendono molto tempo e molto impegno degli studenti sono premiati con un “più” o non rientrano in alcuna valutazione reale della scuola.

Il sistema scolastico italiano non vuole farsi valutare e dunque non può premiare il merito perché non vuole “entrare nel merito”, ma in questo modo costruisce una struttura in cui il progetto viene realizzato, ma non verificato e il lavoratore è retribuito non per come lavora, ma per quanto lavora. Questo non è il modo per mettere un progetto al servizio di una crisi, cosa che normalmente negli altri settori sia pubblici sia privati costituisce la base di partenza di ogni azione diversa dall’ordinario.

Stefano Stefanel

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