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Perché gli studenti non ascoltano?

Pubblicato il: 20/11/2012 12:01:00 -


L’apprendimento non è lineare, è fatto di sbalzi in avanti e indietro e le vie per apprendere sono plurime. Lo studente, però, può trovare la propria via più agevolmente se il docente pratica una didattica contestualizzata, attenta alla metacognizione, all’operatività, alla cooperazione.
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Il 31 ottobre 2012 è stato pubblicato su “Repubblica” un articolo di Marco Lodoli (“La fine dell’umanesimo”), che pone il problema relativo alla difficoltà di insegnare a giovani sempre più demotivati e poco disposti ad apprendere. L’articolo, che si apre con queste affermazioni: “Noi insegnanti parliamo di autori e temi che ai giovani sembrano polverosi e malinconici”, prosegue con la testimonianza di una professoressa che esprime il proprio rammarico nel constatare che quando entra in classe e comincia a spiegare, subito si accorge che nessuno l’ascolta: ”Nessuno. Capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno“. Di fronte a quest’amara situazione la professoressa prova un senso d’impotenza e di fallimento, tanto che le sembra di essere invisibile, di non esistere.
“Perché accade questo?” si chiede l’autore dell’articolo. Perché ai ragazzi “non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni?”. Perché per la stragrande maggioranza dei giovani il patrimonio culturale del nostro Paese non significa più niente?”. Tutto ciò accadrebbe, secondo Lodoli, perché la cultura umanistica ha concluso il suo ciclo, è finita, si è esaurita… […].Tuttavia “questo dichiarato disinteresse per la tradizione”, conclude Lodoli, “non è detto che sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo. […] I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica… non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando”.

Quanto si legge in quest’articolo non stupisce perché, nonostante le Indicazioni nazionali e gli Orientamenti europei (che invitano a sviluppare competenze e non tanto ad accumulare conoscenze), l’insegnamento rimane in molte realtà scolastiche enciclopedico, ancorato a rigidi schemi disciplinaristi, a paradigmi culturali che i giovani percepiscono privi di senso. Troppi docenti parlano ancora di programma e non di Indicazioni, concentrandosi sui contenuti da svolgere indipendentemente dagli studenti, dai loro stili di apprendimento e modalità di apprendere, che sono da tempo profondamente mutate (vedi W.J. Ong, R. Simone, R. Maragliano, U. Galimberti etc.). Sul piano didattico si continua a prediligere la spiegazione, la logica dimostrativa e il ragionamento ipotetico-deduttivo che, richiedendo complessi processi mentali, raramente supportati da approcci motivanti, generano difficoltà e disamore allo studio. In effetti non sono molti i docenti disponibili a cambiare, cioè a praticare in classe la discussione, esercitando l’alunno alla dialettica e alla negoziazione dei significati; a usare linguaggi e testi multimediali familiari ai giovani e sovente facilitatori di apprendimento; ad attualizzare le tematiche trattate, con frequenti raffronti tra presente e passato, sviscerando le grandi questioni o enigmi che, in ogni epoca e società, attraversano l’esistenza dell’uomo: problemi di ieri e di oggi, per i quali non vi sono risposte certe e complete, né tanto meno soluzioni assolute o dogmatiche, ma “relative” legate al “dubbio”; a quel dubbio che percorre, da sempre, la natura umana alla continua ricerca di un senso da dare alla propria esistenza; infine a rendere gli oggetti culturali dialoganti con le diverse soggettività, con i loro bisogni che sono sempre profondi (mai occasionali) e radicati nella sfera del sé (un sé plurimo: relazionale, sociale, psicologico, comunicativo, cognitivo).

Eppure indicazioni e suggerimenti per contrastare il fenomeno ve ne sono tanti, provenienti da vari ambiti, in particolare da grandi figure e personaggi della cultura. Basta citare Vygotsky, Bruner, Socrate stesso che, con il metodo della maieutica basato sulla critica e sugli esempi contrari, conduceva i suoi discepoli all’ “anamnesis”, al potere cioè di scorgere la vera natura, o essenza di una cosa (Popper, “Congetture e confutazioni”, Bologna Il Mulino, 1972, p.27).
Rispetto a questo, è probabile che gran parte dei docenti sia convinta che la conoscenza si acquisisca mediante un rapporto di causa ed effetto, perciò reputa sufficiente spiegare o fare una bella lezione su… per ottenere risultati: “il docente spiega, l’alunno capisce. Se non capisce rispiega allo stesso modo”. Purtroppo questo meccanismo funziona con individui culturalmente attrezzati, ma non con chi va a scuola per imparare. L’apprendimento non è così lineare, è fatto di sbalzi in avanti e indietro e le vie per apprendere sono plurime. Ognuno ricerca la propria e la trova più agevolmente se il docente pratica una didattica contestualizzata, attenta alla metacognizione, all’operatività, alla cooperazione, orientando ogni alunno a riattraversare quanto fatto in territori conoscitivi diversi, sì che possa intravedere, in ogni ripresa e rivisitazione, qualcosa prima non visto.

Se si incoraggiano gli studenti a ipotizzare soluzioni, a rilevare problemi, a prevedere risposte, (che l’insegnante negozierà in vista della risposta giusta), ecco che la disposizione ad apprendere aumenta come la stessa autostima che condurrà, almeno in parte, a rivedere il proprio atteggiamento.
I giovani di oggi, abituati al “fare” digitale, interattivo e partecipativo, avvertono anche per la cultura, il bisogno di fare, di praticarla, di viverla con il cuore e con la mente, di sperimentarla cogliendone il portato teorico e valoriale. Lo studente non cresce consegnandogli un pacchetto conoscitivo preconfezionato (la lezione), ma creando condizioni favorevoli all’appropriazione personale di…

Far immagazzinare conoscenze, non finalizzate a un sapere formativo capace di incidere sull’ “essere”, risulta improduttivo, poiché si rischia di renderle inerti, di trasformarle in informazioni enciclopediche che difficilmente interagiscono/agiscono sull’uomo. Ne sono una testimonianza comportamenti e azioni compiute da individui colti, imbevuti di cultura classica e professionalmente preparati, ma dimentichi degli insegnamenti (ideali e valori) forniti dagli studi fatti. Quanto alla cultura umanistica che è finita, francamente viene da chiedersi come fa a morire una cultura che è scritta nella storia. Solo perché gli studenti liceali non si interessano alle lezioni dei docenti? Ma è proprio questo il problema?
Aggiungiamo infine che la cultura umanistica, come ha notato C. Augias (Una lezione al passo coi tempi, “Repubblica”, 4 novembre 2012), ha formato certo generazioni e generazioni di giovani, ma appartenenti a minoranze elitarie che rappresentano una percentuale molto bassa della popolazione scolastica.
Sarebbe quindi opportuno che ci si preoccupasse con lo stesso afflato degli altri studenti (la maggioranza), che vivono in gran parte situazioni di sopravvivenza culturale. Su di loro i riflettori si accendono raramente, pur sapendo che potrebbe essere proprio la loro sorte a decretare il funerale della scuola.

PER APPROFONDIRE:
http://www.fucinadelleidee.eu/.

Maria Piscitelli

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