Parlar meglio per comportarsi meglio
Le concessioni che facciamo al linguaggio sono a volte l’apripista per comportamenti che da disinvolti possono diventare scorretti. Una riflessione sul ruolo della scuola e dei media su un fenomeno lasciato un po’... a briglie sciolte.
L’altro giorno ascoltavo un programma di politica e attualità in cui si discuteva della moda dell’insulto e del suo impatto sul linguaggio nei giovani. Riflettevo che se è vero che l’eloquio “poco raffinato” sembra essere di moda a qualsiasi livello, altrettanto vero è che il linguaggio spudorato sia stato sempre tipico della sfrontatezza dell’età giovanile, ieri come oggi. L’intervistato citava come esempio il dialogo tra giovani su un autobus: in generale si assiste a una fortissima tendenza verso quello che nel programma veniva definito (a mio avviso in maniera un po’ impropria) “bullismo del linguaggio”: un modo per gli adolescenti di affermare la propria adultità, un atteggiamento che fa parte dello sviluppo ed è legato alla tipica insicurezza adolescenziale. In realtà il bullismo verbale è cosa ben diversa dall’uso di un linguaggio “colorito”; il primo è una forma di bullismo indiretto che tende a danneggiare la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, escludendola e isolandola per mezzo soprattutto di pettegolezzi e calunnie sul suo conto. Attraverso l’uso di parolacce o bestemmie invece si cerca, consapevoli o meno, l’accettazione da parte degli altri, la conferma che si va bene così. Mi sembra inutile sottolineare come in questo imbarbarimento culturale la tv abbia le sue responsabilità: la televisivizzazione della rissa è ormai un fatto ricercato: fa audience!
Su tutto questo la scuola come può incidere? Mi sembra ovvio che la lingua sia una mediazione culturale rispetto alla quale la scuola può e deve avere un ruolo fondamentale. Dico dovrebbe perchè la scuola spesso tollera questo linguaggio “disinvolto” accettando non solo la mancanza di scuse ma anche giustificazioni del tipo “ma ormai lo dicono tutti!”. D’altra parte in un altro programma, l’ex Presidente della Repubblica Cossiga dichiarò che alcune parolacce essendo di uso comune potessero quindi essere accettate anche nel dibattito politico. Sono rimasta un po’ perplessa dinnanzi a questa affermazione, al più condivisibile non in linea generale ma solo quando l’uso di un certo eloquio è fatto da una certa fascia d’età e in contesti di tipo informale. Una stessa parola(ccia) detta da un quindicenne stride se pronunciata da un autorevole accademico magari durante la sua lezione universitaria.
Voglio concludere con una riflessione. I bobbies inglesi (i poliziotti) danno del “Sir” a tutti i loro interlocutori. Anche durante lo sgombro degli alloggi occupati (dagli squatters) i bobbies utilizzano il “Sir” con gli occupanti. La popolazione inglese ha un atteggiamento rispettoso verso la figura del poliziotto e il suo educato e distaccato rispetto del cittadino. Anche a New York Giuliani adottò la “tolleranza zero anche verbale”. Insigni linguisti americani hanno difatti dimostrato che il parlare correttamente e senza tipiche espressioni gergali limita, contiene la violenza, aumenta il rispetto e la comprensione reciproca.
Sarà capitato a tutti di assistere o venire a conoscenza di comportamenti pubblici di dirigenti scolastici o docenti non sempre esteriormente distaccati ed educati; in fondo, se scappa una parolaccia “che male c’è?”. E in periodo di acquisto di libri di testo e di testi consigliati, utile sarebbe l’adozione di una grammatica della comunicazione, la cui lettura sarebbe da consigliare a tutti.
Anna Maria Pani