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Dialettica dell’impossibile

Pubblicato il: 05/03/2010 15:08:35 -


Quale terreno comune nella didattica tra scuole e mondo accademico? Partiamo dal considerare i mutamenti epocali nell’antropologia e nella psicologia dei nostri allievi e nelle conseguenti metodologie d’apprendimento.
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I nostri “colleghi” universitari si scandalizzano per quelli che definiscono vergognosi e indecenti livelli di apprendimento delle matricole provenienti dalle nostre scuole superiori. È il solito scaricabarile. Si dà ai “colleghi” che ci precedono nella formazione degli allievi la “colpa” per le carenze strutturali di questi ultimi. È un gioco al massacro reciproco del sistema formativo nazionale di cui le prime e più importanti vittime non sono i docenti, ma gli allievi.

Non si vuole esimere da eventuali responsabilità il corpo docente della scuola, ma si ha l’impressione che i nostri colleghi dell’università abbiano più di qualche difficoltà a comprendere i mutamenti epocali nell’antropologia e nella psicologia dei nostri allievi e nelle conseguenti metodologie d’apprendimento. Si ha la netta sensazione che gli universitari sembrino vivere in un altro mondo, su un altro pianeta.

Nella migliore delle ipotesi non solo educativa, le università, per tentare di risolvere questa presunta e quasi irrimediabile deficienza totale delle matricole non sanno far altro che organizzare “corsi di recupero”. È vero che l’università si è licealizzata (anche se tanti tra i suoi docenti sembrano non accorgersene e tirano diritti per la loro strada “verticale”, che ci conduce inesorabilmente diritti al baratro), ma non crediamo che “il corsismo” e il “recuperismo” che già hanno dato e continuano a dare cattivissima prova di sé nelle nostre scuole, possano contribuire a modificare le pretese sorti regressive degli allievi. Anzi, non possono fare altro che ulteriormente contribuire alla loro regressione, alla loro apatia e alla loro abulia.

Innanzitutto le matricole si trovano di fronte un docente che prevalentemente svolge il suo mestiere, avvalendosi di una lezione frontale disciplinare, fondamentalmente unilineare, estrinsecazione diretta ed espressione conseguente della forma-libro. Il guaio è che il neo-allievo possiede una formazione e un immaginario, spesso nemmeno fornito dalla stessa scuola, che in molti casi lo contrasta, invece di assecondarlo e coltivarlo, correggendolo ed emendandolo per renderlo migliore e più efficace, completamente diverso da quello del docente.

Se la scuola di provenienza ha espletato il suo dovere, consolidando l’università popolare e informale di Internet, coadiuvata da televisione, cd, dvd, cinema e letteratura anticanonica e sovversiva, il discente che si presentasse di fronte al collega universitario tutto gongolante e soddisfatto per l’eccelsa e gravosa preparazione della sua lezione frontale perfetta da “trasmettere” (mentre invece essa, la lezione frontale e disciplinare, si rivelerà solo un mezzo e uno strumento molto efficace ed efficiente per scatenare la tempesta perfetta) si troverebbe a possedere una formazione e un immaginario olistico antispecialistico e antitrasmissivo, l’opposto della lezione frontale e disciplinare.

Eppure il docente universitario, la cui tradizione e formazione risale alle università del Medioevo, dovrebbe ricordare che nello stesso Medioevo e nel successivo Rinascimento, numerosissimi allievi, al di fuori dei circuiti retorici e umanistici, apprendevano l’arte non con modelli trasmissivi, oratori e unilineari, ma guardando come si fa, sperimentando direttamente, personalmente e protagonisticamente come si fa, provando, riprovando e sbagliando continuamente. E all’epoca non c’erano né computer né simulazioni elettroniche né realtà virtuali in cui l’apprendista-stregone potesse tuffarsi in una immersione profonda, totale, individuale e personale. Si apprendeva, ci si educava e ci si formava alla scienza, all’arte, alla vita e al lavoro a stretto contatto, spesso condividendo tutto, dal pane al sonno, in una bottega artigiana, in un laboratorio in cui i maestri e i mastri agli allievi-apprendisti non insegnavano, ma gli mostravano come si fa, spesso non disdegnando un loro contributo diretto e personale, anzi sollecitandolo e apprezzandolo in quello che potremmo definire un processo d’apprendimento interattivo. In tali ambienti di apprendimento medievale e rinascimentale, in questi cantieri spesso a cielo aperto, se pensiamo ai mastri e alle maestranze costruttrici indimenticabili di castelli e cattedrali, non c’erano confini tra le discipline che allora non erano nate né concettualmente né praticamente, ma solo ambiti di conoscenze e competenze strettamente correlati, interdipendenti e interconnessi non da una interdisciplinarità che non esisteva, ma dalla natura e dalla naturalezza delle relazioni d’apprendimento concepite e finalizzate all’interno di un contesto esclusivamente funzionale al raggiungimento di un obbiettivo che naturalmente non escludeva, anzi imponeva una riflessione più generale sugli esiti anche epistemologici del lavoro concreto, brillantemente portato a termine in un processo di accumulazione quantitativa e qualitativa del sapere.

In questo processo cumulativo ed epistemologico si inseriva la stessa crescita professionale e formativa dell’allievo-apprendista che avveniva e maturava lentamente e per gradi in un ambiente di apprendimento sostenuto e valorizzato da una équipe di mastri e maestri del come si fa che sollecitavano gli allievi-apprendisti a intervenire nelle varie fasi del lavoro, stimolando e favorendo il ruolo attivistico e protagonistico dei futuri professionisti.

Di ciò rimane qualche traccia nella nostra scuola e nella nostra università? Francamente, direi proprio di no.

Gennaro Tedesco

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