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Il capitale umano nell’organizzazione della scuola

Pubblicato il: 02/04/2010 19:00:00 -


Nella società di oggi, considerata “società della conoscenza”, l’importanza verso l’immateriale, ossia verso le competenze e le conoscenze e il capitale umano, cresce ogni giorno per influenzare in modo positivo il benessere economico dei singoli individui e delle collettività.
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L’espressione “post-moderna” con la quale è stata definita la società della fine del secolo XX oggi rimanda alla difficoltà di cogliere le caratteristiche di un mondo in rapida trasformazione: sono venuti, infatti, a mancare i punti di riferimento, sia politici che economici, una volta consolidati nel tempo.

L’impulso venuto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha contribuito a far definire la società odierna attraverso nuove espressioni quali: “information age”, “learning society”, “knowledge based economy” e “globalization age”. Le espressioni sopra citate rimandano sostanzialmente a un unico paradigma: la conoscenza è diventato un elemento fondamentale per il governo dell’economia.

Secondo molti studiosi stiamo vivendo una nuova rivoluzione della stessa portata di quella industriale, soltanto che gli investimenti più cruciali sono quelli immateriali, ossia quelli finalizzati alla creazione del capitale umano. Con il concetto “capitale umano”, generalmente, si intendono le conoscenze, abilità e competenze e altre qualità degli individui che sono rilevanti per l’attività economica (OECD, Human Capital Investment: An International Compariso, Paris, 1998).

I benefici del capitale umano (e sociale, perché non si può parlare di capitale umano senza tener conto di quello sociale) sono stati esaminati da molti studiosi, come Robert Putnam e Gary S. Becker, da organizzazioni nazionali e internazionali. Se tale capitale è stato identificato come una delle condizioni per conseguire alti tassi di occupazione, crescita economica (personale e collettiva) e progresso sociale, non è stato tuttavia possibile elaborare un indicatore diretto per misurarlo e per identificare il livello con cui esso influenza la crescita economica. Si è ricorsi perciò a un approccio indiretto che individua nel livello di scolarità una “misura di approssimazione” del suo valore in virtù della presumibile correlazione tra educazione e abilità da una parte e abilità e reddito dall’altra. Ci sono però molti fattori che impediscono di considerare il livello di istruzione conseguito come un equivalente dello stock di capitale umano, quali le differenti condizioni necessarie per completare gli studi scolastici e i differenti curricoli tra i diversi Paesi; e le conoscenze e le competenze che si acquisiscono al di fuori dell’istruzione formalizzata.

La complessità della società richiede, per potervi partecipare a pieno titolo, sia come lavoratori che come cittadini, competenze sempre maggiori, “saperi minimi” non perché riduttivi, ma perché necessari per poter vivere il proprio tempo: la capacità di saper usare le informazioni scritte diventa oramai un requisito indispensabile se non si vuole rischiare la marginalizzazione o peggio l’esclusione sociale: questa competenza è stata definita a livello internazionale con il nome di “literacy”. Con questo termine si intende “la capacità di capire e impiegare informazioni scritte nella vita quotidiana, a casa, al lavoro e nella comunità al fine di raggiungere i propri scopi, e di sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità” (OECD, Literacy in the Information age, Paris, 2000).

Pur essendo difficile quantificare direttamente i benefici dell’investimento in capitale umano sull’economia, sono invece certe le conseguenze dannose di bassi livelli di scolarità nella società odierna. La sfida dei Paesi industrializzati sembra essere quella di coniugare la qualità – degli esiti degli apprendimenti della popolazione scolastica – con la quantità di una popolazione scolastica più numerosa.

Bianca Briceag

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