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Il biennio, tra ideologia e realtà

Pubblicato il: 07/03/2013 14:08:17 -


Riflessioni e spunti sul biennio delle superiori: come coordinare l’azione dei due anni dopo il primo ciclo per migliorare la qualità degli apprendimenti e potenziare l’orientamento?
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Una piuttosto opaca campagna elettorale per la scuola ha riportato alla ribalta il biennio, quel segmento incardinato nella scuola superiore ma che risponde alle istanze dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione.

Quello che è interessante di questa (per la verità piccola) diatriba è il contenuto della polemica, esattamente quello di cinquant’anni fa.

Sia i favorevoli sia i contrari alla sua riproposizione manifestano una visione ancora un po’ ideologica, da un lato attribuendogli finalità già presenti nell’ordinamento e che però non sono state raggiunte in questi anni, dall’altro prendendo atto di una realtà che non vuole compiere un passo decisivo verso il cambiamento.

La questione, com’è noto, nasce attorno agli anni Settanta del secolo scorso, sulla spinta di una visione più democratica ed egualitaria delle opportunità formative, che andasse oltre la scuola media resa obbligatoria sulla base di un modello unico capace di unificare la precedente scuola a impronta liceale (il ginnasio inferiore) con l’avviamento professionale.

Questa impostazione veniva rinforzata, con l’ampliamento della base culturale, dai nuovi programmi del 1979.

Una sperimentazione diffusa poneva il biennio unico alla base della riforma di tutto l’attuale secondo ciclo, in vista, anche sulla scorta di venti riformatori che provenivano dal Nord Europa, dell’innalzamento dell’obbligo scolastico fino al diciottesimo anno.

La Costituzione affida alla scuola il compito di formare le persone e i cittadini, di garantire i diritti i tutti attraverso le pari opportunità, mentre all’istruzione artigiana e professionale quello di stare più vicini alla qualificazione dei lavoratori.

Ciò che era stato accettato come segno di progresso civile e culturale con la scuola media unica, sostenuta da una pedagogia dell’orientamento, non ha avuto però la stessa accoglienza nella scuola superiore, nella quale la tradizione umanistica e la disponibilità, in quegli anni, del mercato del lavoro, volevano mantenere aperto il doppio canale, pur richiedendo per gli apprendisti una formazione generale, di cultura civica e organizzativa.

Una commissione nazionale di studio (la Commissione Biasini) ha provato a sintetizzare una tale prospettiva, che però trovò spazio solo nelle predette iniziative sperimentali.

Con l’entrata in vigore delle Regioni a statuto ordinario, che presero in carico la competenza costituzionale della suddetta istruzione artigiana e professionale, tale settore si è notevolmente rinforzato e ogni Regione con propria legge ha disciplinato un settore che vedeva la presenza di enti di formazione legati o ai ministeri (industria, agricoltura, ecc.) o ad associazioni di categorie produttive o lavorative.

Le Regioni hanno polarizzato dette attività e i relativi enti, ponendosi come interlocutori forti nel dibattito sulla politica scolastica al punto, in alcuni casi, di chiedere la regionalizzazione degli istituti professionali di stato, i quali con più difficoltà potevano rientrare in un modello di scuola unica.

La riorganizzazione di questo ordine di studi, costata parecchio in tutti i sensi, non ha risolto il problema, e oggi sono ancora presenti le difficoltà sul piano del decondizionamento sociale e degli insuccessi negli apprendimento.

Anche se la scuola non è più proclamata la sede dell’otium, il negotium c’è ancora tutto in questi indirizzi, con grave danno sia per l’equità (costituzionale), sia per le richieste stesse del mondo del lavoro.

La scuola superiore unica tramontò presto, anche per l’indebolimento del suddetto vento del nord.

Rimasero però aperte due questioni: l’innalzamento dell’obbligo, più che come costrizione, come opportunità, e i primi due anni nei quali i processi maturativi degli adolescenti (si vedano le difficoltà presenti già nella scuola del “preadolescente”) comportavano non pochi sforzi per la motivazione generalizzata agli studi e l’orientamento.

Da qui allora il biennio da unico divenne unitario, con un’area comune e un’area di indirizzo.

Nel frattempo le iniziative sperimentali furono piegate dal Ministero in questa direzione e un tentativo di costruire in tal senso tutto l’impianto istituzionale venne iniziato dal ministro Falcucci e culminò nella monumentale opera della Commissione Brocca, che dopo quella del ministro Gonella nell’ultimo dopoguerra fu il più grande tentativo di rivedere la scuola superiore, come diceva la Falcucci, per via amministrativa, visto che quella politica era impantanata su diverse proposte di legge che non videro mai la luce.

Il disegno Brocca, benché rimasto a sua volta solo sperimentale, durò a lungo, in quanto aveva modernizzato i contenuti, introdotto alcuni dispositivi di flessibilità (vedi l’area di progetto), condiviso interventi nell’istruzione tecnica con il mondo del lavoro.

Si sa che la formazione del “tecnico intermedio” era molto cara a Confindustria, che ha contribuito a consolidare e rimodernare un pacchetto di indirizzi utili al sistema produttivo nazionale pur cercando di recuperare i rapporti con le imprese sul territorio: si pensi ai “poli tecnico professionali”, provenienti dai “distretti industriali”, sui quali con le regioni si sono istituiti gli “Istituti Tecnici Superiori”.

La realtà degli istituti professionali rimaneva invece legata a questioni politico-sindacali. Il riordino li aveva portati da un lato verso i tecnici, con la quinquennalizzazione non proprio riuscita, e dall’altro alla competizione con la formazione professionale regionale, più dura dove c’è maggiore sviluppo economico e produttivo.

Il risultato è che questo ordine di scuole rischia la marginalità o la supplenza a sistemi regionali inefficienti, al punto da essere ritornate ad attribuire la qualifica triennale, inserite nella programmazione delle Regioni. La riforma del Titolo Quinto della Costituzione, in vigore da più di dieci anni e non ancora attuato, parla di Istruzione e Formazione Professionale. È certamente una formulazione più adeguata ai tempi, ma si tratta solo di questo?

La discussione sembra a questo punto prendere un’altra piega, non più quella della lotta tra le parti politiche che aveva caratterizzato trent’anni di vita parlamentare, fino alla fine del secolo, a suon di progetti di legge contrapposti.

Sia nel sistema scolastico, perlopiù costituito da scuole statali, sia in quello regionale, composto da enti territoriali e privati convenzionati, si è infatti provato a sperimentare, questa volta con l’accordo tra Stato e Regioni, percorsi integrati tra i due sistemi, riconoscendo da un lato l’importanza di avvicinare la scuola alla realtà (che vedrà uno sviluppo con i sempre più diffusi tirocini nelle aziende), dall’altro la necessità di migliorare la preparazione professionale con competenze di carattere culturale, linguistico, organizzativo, ecc., ponendosi da entrambe le parti il problema di contrastare la dispersione, fenomeno attribuito a situazioni socio-culturali dell’ambiente, ma anche in larga misura all’insuccesso scolastico e formativo.

L’abbandono, che poteva sollevare anche il nostro sistema dalla grave crisi di performance nel confronto internazionale anticipando l’ingresso nel mondo del lavoro, oggi incontra la disoccupazione, che pone sempre più a disagio i non qualificati (non rivedere costantemente le proprie competenze significa essere fuori mercato in poco tempo).

La prospettiva dell’integrazione aveva presieduto, già oltre dieci anni fa, a provvedimenti di innalzamento dell’obbligo, non più solo scolastico ma anche formativo, proseguito con l’obbligo di istruzione e con il diritto-dovere.

Quello che viene tenuto fermo è l’età degli obbligati, mantenendo i 16 anni e proiettandoli fino a 18; ciò che però non è più univoco è il modo attraverso il quale arrivarci.

Oggi abbiamo ancora i due canali e mentre gli istituti professionali, come si è detto, ritornano sulle qualifiche triennali, quelli regionali tentano di arrivare al quinto anno per poter giungere in modo paritario all’esame di Stato e consentire l’accesso all’università o all’istruzione tecnica superiore (stessa motivazione in passato per i suddetti istituti professionali quando passarono una prima volta da bi-triennali a quinquennali e dettero origine addirittura a ordini professionali).

Vale la pena mantenere questa situazione o forse sarebbe giunta l’ora di dare corpo a quanto detto dalla nuova Costituzione?

Istruzione e formazione professionale, un nuovo gande ambito formativo, sono di competenza esclusiva delle Regioni, ma queste, pur nella loro autonomia, devono sottostare agli standard nazionali sulle qualifiche, che ormai sono sempre più in linea con quelli europei; per quanto riguarda invece i Livelli Essenziali della Prestazioni (LEP), lo Stato stenta a emanarli, sempre per dar corso alle preoccupazioni costituzionali di garantire i diritti sociali e civili su tutto il territorio nazionale.

Tornando invece al biennio la questione dei 16 anni sembra ormai assodata. È dunque il come a preoccupare di più.

La scansione del secondo ciclo dell’attuale riforma Gelmini può essere facilmente rivista al proprio interno e l’allargamento delle possibilità di scelta potrebbe non essere negativo per gli studenti (è tutto da verificare l’utilizzo dell’apprendistato per l’assolvimento dell’obbligo, data la debolezza di questo istituto anche sul versante lavorativo) se garantisce equità, efficacia nei risultati di apprendimento e un buon sostegno all’orientamento personale e lavorativo.

Sono questi i parametri che lo Stato deve controllare non preoccupandosi della gestione centralistica peraltro di un pezzo del sistema dell’education.

Un biennio monolitico dunque, pur con alcune flessibilità (il 20%? I proponenti dell’unitario non dicono come) senza un radicale cambiamento didattico e una reale autonomia dei curricoli e delle professionalità interne alle scuole sarà ancora una volta una costruzione ingegneristica che, come accaduto in passato, non assicura i risultati.

Il periodo più debole della vita scolastica è questo passaggio maturativo, che se da una parte ne mette a rischio la riuscita, dall’altra potrebbe mettere in evidenza anche le eccellenze: dalla seconda media alla seconda superiore.

Si può pensare a un periodo ad hoc come per la scuola francese, soprattutto se si vuole riprogettare l’uscita a 18 anni?

Di sicuro c’è bisogno di una revisione dei curricoli, in parte già anticipati dalle recenti indicazioni nazionali sul primo ciclo e dal decreto 139/2007 relativo all’innalzamento dell’obbligo di istruzione, insieme a quel corredo normativo che il ministro Fioroni aveva predisposto d’intesa con le Regioni su quella che continuiamo a chiamare integrazione (per marcare la novità) tra i due canali (accreditamenti).

Differenziare non può essere più un tabù; il controllo va posto su altri indicatori: i LEP, i risultati, di tutto il sistema, scolastico e formativo. Per il resto occorre un grande investimento sulla qualità dei processi formativi, sempre per lasciarci influenzare, mutatis mutandis, dal vento del nord.

I 16 anni, in vista dei 18, devono essere la preoccupazione principale, per tutti.

Il nostro, dice la legge 62 del 2000, è un “sistema educativo di istruzione e formazione professionale”; tutte le offerte dunque devono avere “pari dignità”, nell’ottica degli obiettivi che lo Stato si dà e che verifica nel loro raggiungimento assieme alla garanzia dei diritti sociali e civili.

Da qui la riorganizzazione degli indirizzi in liceali, tecnici e di istruzione e formazione professionale.

Lo Stato si occupi delle norme generali, dei LEP e del confronto internazionale dei risultati.

In una governance di carattere regionale e locale sarà possibile coordinare l’azione dei due anni dopo il primo ciclo per migliorare la qualità degli apprendimenti e potenziare l’orientamento, soprattutto per quella vasta area di istruzione e formazione professionale che oggi può costituire il “valore aggiunto” anziché il problema principale per la qualità del sistema e il suo stretto rapporto con lo sviluppo del territorio.

Non nascondiamoci dietro al biennio, l’equità e la qualità sono sostanzialmente un problema di governo di questo sistema e di investimenti.

Gian Carlo Sacchi

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