Il bambino produttore di informazione
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L’esperienza di una classe di bambini di terza elementare che giocano a fare cinema e “diventano” registi. Ricordando, ancora una volta, come “è determinante per loro certe esperienze viverle e rielaborarle all’interno del gruppo dei pari, perché è così, più che nel rapporto “docente-discente” o nella solitaria esplorazione dei mezzi, che diventano cultura”.
La generazione dei “vecchi” di oggi, a cui ormai appartengo, è diventata adulta e poi matura con molta, moltissima televisione, ma anche con tanto, tanto cinema. C’era forse una profonda contraddizione non risolta tra lo studio sui libri e l’immaginario carico di emozione che si nutriva soprattutto di immagini e suoni, e il cui effetto sulla mente e sul cuore degli umani era così poco traducibile nel medium “parola”, scritta o parlata che fosse. Per accumulo, mettevamo insieme “Mezzogiorno di fuoco”, “2001 Odissea nello spazio”, “L’attimo fuggente”, ma anche “Dallas” e “Beautiful”, in un mix talvolta imbarazzante ancorché – è inutile negarlo – coinvolgente! Difficile parlarci sopra, definire, verbalizzare, dove l’avversione diffusa verso la logorrea spesso percepita stonata di chi per mestiere “traduceva in parole”, come i critici cinematografici, evocava un grido di popolo tante volte trattenuto e a un certo punto a sua volta divenuto icona, emblema: “No, il dibattito no!” nel primo film di Nanni Moretti, che non a caso fu anche uno dei primi esempi del possibile successo di massa di una tecnologia “casalinga”, il “Super 8”.
Nello stesso anno, il 1976, già l’industria aveva definito gli standard Betamax e VHS della videoregistrazione domestica su cassette, mentre fuori dai progetti e dalle previsioni della grande industria, nei garage e nelle cantine, studenti di 20 anni giocavano ad assemblare macchine che chiamavano personal computer…
È una brevissima scena video che in questi giorni mi colpisce, nell’emozione e nel pensiero, mentre sto montando un lavoro fatto con i bambini di terza elementare. Mi rappresenta in quattro secondi un aspetto importante della generazione odierna, dal punto di vista assolutamente possibile e forse proprio per questo generalmente ignorato, del “bambino produttore di informazione”.
Dai tempi di “Io sono un autarchico” di Moretti tanti aggeggi casalinghi sono passati, sempre più “concorrenziali” con gli attrezzi dei professionisti, e io appena possibile ci facevo giocare i bambini! La questione è riuscire a rendere in un ragionamento ripetibile e comunicabile – in parole, perché poi sono ancora quelle che fissano i concetti, oltre la ricchezza e ambiguità di immagini e suoni e percezioni sensoriali – i messaggi molteplici che i bambini mandano quando, accostandosi come in un gioco a strumenti della tecnologia un tempo proibiti e oggi facili e accessibili, passano, per così dire, “dall’altra parte”.
Non quella questione di cui tanto si parla, spesso a vanvera, quando la facilità d’uso di telefonini, tablet e gadget digitali vari stupisce e a volte sconcerta l’adulto che forse non è abituato a osservare i bambini: come spontaneamente si accostano a tutti gli oggetti e ambienti della loro vita, quali che siano, e li traducono e interpretano nel gioco, nel disegno, nel teatro, con invenzioni e parole a volte cariche di significati, pur nella loro ingenua formulazione infantile. Il bambino osserva, tocca il gingillo digitale come la palla e, se gli rispondono, gioca con loro. Elementare, Watson! Ma poi, nell’evidenza dei fatti, la eventuale consuetudine con l’iPad non diminuisce per nulla la voglia e il piacere di giocare con la palla, i burattini, le bolle di sapone, di correre nei prati e magari arrampicarsi sugli alberi. Dipendesse dal bambino!
Nella scena video due bambine manovrano una videocamera sul cavalletto, in una semplice, perfetta, straordinaria panoramica a 4 mani. C’è l’antefatto di un adulto un po’ rompiscatole che – per qualche sua strana ragione – pretende che i bambini, nelle loro prime riprese non tengano la videocamera in mano, ma la appoggino su un treppiede. In questo modo, spiega un po’ petulante, le scene vengono “naturalmente perfette”. E così, quando il cesto di mele viene illuminato dal sole e si anima di suggestive luci e ombre che sembra un quadro del Caravaggio, i bambini – che magari nel loro immaginario non fanno riferimento esattamente al Caravaggio – trovano comunque molto bella la scena di quell’umile cesto, semplicemente fermo, con le loro mani che entrano ed escono dall’inquadratura prendendo le mele!
Poi, a turno, dietro la macchina da presa fanno i “registi”: le facce dei compagni, altre mele trasformate in bizzarri personaggi, primi piani, dettagli. Sullo sfondo la classe o il panno verde, perché poi faremo anche dei “chroma key”! Lo zoom – ordine tassativo dell’adulto petulante – lo possono usare solo prima di iniziare le riprese, per stabilire un’inquadratura che poi non verrà modificata (anche le scene senza zoomate inutili sono “naturalmente perfette”!) Alcuni tendono istintivamente a muovere la leva del treppiede (sentono il bisogno di “fare qualcosa”). Poche domande o indicazioni: «È la telecamera che deve muoversi, o sono le persone davanti?» Oppure: «Se decidiamo di fare un movimento, deve essere solo da qui a lì, in orizzontale o verticale, e poi punto!» Forse non tutti, forse non subito, ma so che i bambini capiscono. Forti dell’immensa cultura televisiva latente che già a otto anni possiedono, vedono quelle mele illuminate dal raggio di sole, vedono le facce loro e dei compagni, belle ed espressive, nelle brevi inquadrature ferme ma “movimentate” dal montaggio. Niente a che vedere con i prolissi e inguardabili “filmini” di famiglia. Sembra la “TV vera”. E i bambini capiscono, anche perché quelle riprese le hanno fatte loro!
Il movimento a quattro mani è sollecitato anche dalla qualità del treppiede. Quello che stiamo usando ha addirittura la testa intercambiabile e nelle panoramiche suggerisce anche al neofita una manovra precisa e fluida (non lo devi tenere fermo con l’altra mano, come succede con certi “super leggeri”!) Per così dire, “sostiene il movimento”. E poi va bene, oltre che per le leggerissime videocamere amatoriali di oggi, anche per macchine un po’ più professionali o per le fotocamere reflex, che nei modelli recenti sono perfette per girare i video.
Le due bambine dunque, in quei quattro secondi, dopo le sollecitazioni dell’adulto rompiscatole e dopo aver eseguito alcune riprese con macchina ferma, si stanno avventurando nella loro prima panoramica “professionale”, cercando una armonia anche corporea con il treppiede. Lo fanno insieme, aiutandosi e confermandosi l’una con l’altra in quel gesto per loro naturale quanto nuovo: come un esercizio di ginnastica, un passo di danza, da capire e interiorizzare, che funziona meglio se condiviso, esplorato reciprocamente. Al movimento delle braccia e delle spalle, sincronizzato con l’attrezzo meccanico, corrisponde un’osservazione molto attenta, “a quattro occhi”, di quello che vedono inquadrato nel display della videocamera: hanno capito, e si stanno impegnando per fare tutto bene.
Osservata la cosa con i bambini in situazioni analoghe centinaia di volte: non il tradizionale insegnamento di una “grammatica” prima di fare le cose (con gli attrezzi di oggi non è più necessario); e nemmeno la scoperta “spontanea” da parte dei bambini di tutto quanto con quegli attrezzi si può fare (suggestivo e romantico, ma non realistico). Perché i bambini possano diventare “produttori di informazione” oggi basta davvero pochissimo, ma è necessario che prima qualcuno (adulto, o bambino già esperto) almeno faccia vedere, e poi che qualcuno (sicuramente adulto) presti attenzione. Serve la conferma che l’espressione del bambino, maturata attraverso il gioco e comunicata attraverso i mezzi, merita di essere considerata.
Oggi è possibile insieme, bambini e adulti, “gettare ponti” tra la tecnologia che consumiamo e quella che possiamo gestire in modo attivo, e insieme uscire dal circolo vizioso improduttivo e anacronistico che confina tra esercizio scolastico e tempo libero le attività della moltitudine dei “consumatori”, grandi e piccoli. I quali, dai capricci di un mercato onnipotente che blandisce, coccola, ma non lascia il modo e il tempo per capire, rispetto ai linguaggi attraverso cui effettivamente si parla nella società dell’informazione, sono spinti di fatto sempre più al di sotto della soglia minima di alfabetizzazione, erroneamente identificata da un senso comune frastornato come un territorio esclusivo per professionisti o, peggio, per “nativi digitali”. Questioni grosse in prospettiva: cittadinanza attiva o passiva, democrazia partecipata o svogliatamente delegata, apprendimento di “procedure” imposte dall’esterno o appropriazione consapevole di strumenti che permettono a chiunque di essere, all’occorrenza, protagonista.
La formidabile cultura televisiva da “telespettatori” che ogni bambino possiede (ma anche ogni adulto ormai, meno che centenario), la competenza interattiva con videogiochi, pc, telefonini caratteristica dei bambini (e di tanti adulti che erano bambini o giovani 30 fa!) in realtà consentirebbe a chiunque una veloce appropriazione della grammatica per scrivere anche, e non solo leggere, gli alfabeti audiovisivi e digitali. I bambini piccoli questa cosa la intuiscono, ma poi, generalmente, se lasciati senza punti di appoggio, si adeguano crescendo al più piatto consumo. Dire che i bambini non imparano da soli significa anche che è determinante per loro certe esperienze viverle e rielaborarle all’interno del gruppo dei pari, perché è così, più che nel rapporto “docente-discente” o nella solitaria esplorazione dei mezzi, che diventano cultura. Se, per esempio, dietro alla videocamera, insieme con chi a turno esegue le riprese, si mettono un paio di altri bambini in attesa, facilmente incominceranno a fare cose insieme, come quella bellissima panoramica a quattro mani.
Roberto Maragliano, nell’introduzione al libro “Immaginare l’infanzia”, sintetizzava molte bene la formazione della conoscenza nelle tre ere, del libro, della televisione e dei mezzi digitali: «Al paradigma del testo (fondante il sapere come oggetto fisico) e al paradigma del flusso (fondante il sapere come ambiente immersivo), se ne aggiunge uno nuovo, il paradigma dell’interattività». Andrei oltre: si aggiunge anche “la possibile contemporaneità – mai data in precedenza – tra trasmissione di sapere e produzione”, con uno scambio di ruoli, provvisorio ma reale, tra chi insegna e chi impara, chi produce e chi consuma. Questo è probabilmente il punto centrale su cui si gioca, in un senso o in un altro, il futuro della rivoluzione digitale.
Continuando il lavoro con due prime medie, mi imbatto in un ragazzino che si dichiara appassionato di video e racconta dei suoi montaggi con effetti speciali, usando software “professionale” crackato, che poi pubblica su YouTube! Parla con una sicurezza e una proprietà impressionanti per i suoi undici anni, in modo simpatico ma compiaciuto, e mi viene da pensare che, se fossi un umanista tecnologicamente imbranato più di quello che sono, forse sarei tentato anch’io di credere a quelle favole sui mutanti digitali che vanno tanto di moda oggi, prendendo la mia personale ignoranza come paradigma di una intera generazione e sorvolando sul fatto che il pischello in questione, in quel campione della sua generazione, è in realtà unico su una folla di 40! Gli faccio i complimenti per la sua bravura di film maker e ovviamente aggiungo – dovere di educatore – che i programmi non si dovrebbero crackare. Poi correggo alcune sue imprecisioni (non si può per es. chiamare “professionale” un programma che gestisce solo due tracce video!) e racconto anche a tutti gli altri, ragazzi e adulti presenti, della grande potenza di certo software di montaggio “per famiglie”, che effettivamente consente produzioni un tempo possibili solo ai professionisti, e dotati di grandi mezzi.
Finito il lavoro con le due classi, il ragazzino viene da me e mi mette in mano una chiavetta USB: “Tieni! Qui ci sono i miei video!”
Paolo Beneventi