Le arti contemporanee vanno al liceo (2 di 2)
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Divido gli studenti in due gruppi, e chiedo al primo gruppo di realizzare immagini del “brutto” e al secondo di raffigurare il “cattivo”. Fioccano le domande: “Cosa dobbiamo rappresentare? Una persona, un oggetto, una storia, un simbolo?” Ognuno deve scegliere la direzione in cui muoversi. Alla fine dell’esercizio i lavori vengono scambiati. Chi ha lavorato sul brutto riceve un disegno che rappresenta il cattivo e viceversa. Ora bisogna scrivere un titolo, una didascalia, un commento alla figura che ciascuno ha davanti agli occhi, ma descrivendo il brutto come se fosse il bello, e il cattivo come se fosse il buono. “Ma come faccio a definire come buona un’immagine di Hitler?” Certo non è facile. Bisogna inventare. Così il disegno di un’aquila nazista sopra una svastica (il cattivo, il male) viene chiosato come “la fiera aquila, il più nobile tra i volatili, trova riposo su un trespolo di bizzarra forma”. Un farabutto che tenta di derubare un’anziana donna minacciandola con un coltello diviene un gentile signore che, rivolgendosi alla vecchina, dice “Signora, le era caduto il coltello da caccia”. “Non sono brutto,” precisa un orrendo pupazzo, “sono diversamente bello”. Oppure “La diversità è un valore aggiuntivo”. O una definizione di bellezza “sublime”: “Bello è ciò che spezza l’armonia, che oscura, rovina, corrompe”.
Si riflette così sull’aspetto convenzionale dei linguaggi, sul loro carattere strumentale, a volte mistificante, su come tutto ciò che può essere usato per dire la verità possa essere ugualmente usato per mentire.
Niente più di un’immagine mette in moto passioni e desideri, essendo allo stesso tempo suadente e sincera, misteriosa e ingannevole. Quanto mai ambigua e sfuggente è poi la relazione tra immagine e parola: “A uno di costoro che adorano le immagini – si legge nei Libri Carolini, 794 d. c. – vengono presentate le immagini di due belle donne a cui non sono state apposte le iscrizioni. Quegli, disprezzandole, le respinge entrambe. Ma qualcuno lo avverte: bada che una di esse raffigura la Madonna, non va respinta; va respinta invece l’altra, che raffigura Venere. L’interpellato, allora, si rivolge al pittore stesso, e chiede a lui quale delle due sia l’immagine della Madonna, quale di Venere, perché sono in tutto somigliantissime. Allora il pittore a questa appone la scritta ‘Santa Maria’, a quella ‘Venere’”.
In un altro esercizio chiedo agli studenti di rappresentare sul foglio, ciascuno a suo modo, un temenos, cioè un recinto sacro. In antichità, era un luogo destinato al culto di un dio o all’uso esclusivo di un re, o ad altre particolari attività, ma in senso lato è temenos ogni gesto o segno che istituisca un territorio o un campo di sacralità, di privilegio o di distinzione: il solco dell’aratro di Romolo che descrive i confini di Roma, la corona dell’Imperatore, l’alloro del poeta, l’ulivo degli atleti olimpici, ma anche lo scudo di Achille, segno indicativo dell’eroe, una raffigurazione dell’ordine cosmico forgiato dal dio Vulcano in persona, o la cornice pregiata di un’opera d’arte, il disegno del cuore graffito sul muro con dentro i nomi di due innamorati, o la grande vasca termale svuotata dell’acqua di Bagno Vignoni che Gorciakov, il protagonista del film “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij, attraversa a piedi, da un bordo all’altro, con una candela accesa in mano, per assolvere a una promessa.
La rappresentazione di questo confine sacro ha spesso la stessa rilevante importanza di quanto in esso è contenuto. L’atto che definisce un temenos può restituire identità e, insieme, creare discriminazione ed esclusione. Un temenos è anche l’emblema della scelta e della rinuncia, vi può abitare solo l’essenziale, soltanto ciò che riconosciamo come davvero prezioso. Nel dare vita a un temenos ci inoltriamo nel segreto del simbolico, gettiamo una sonda nel profondo del legame, oscuro ed enigmatico, tra la forma e il suo contenuto. Quanto tutto ciò possa essere rischioso, ci aiuta a comprenderlo la ragazza che, in lacrime, prova a spiegare ai compagni il disegno del proprio temenos, la sagoma di due chiavi accostate: spazio vuoto, perché in attesa di “qualcuno che ora non c’è, ma che spero presto ci possa essere”.
Ma perché mai lavorare a consacrare quando la cultura e la comunicazione di oggi sembrano andare in una direzione diametralmente opposta? Dissacrare, trasgredire, deridere, vengono comunemente recepiti come atti di una cultura “progressista”, impegnata alla liberazione, all’emancipazione dell’uomo. Storicamente questo aveva un senso in società costruite su norme e valori rigidi e cristallizzati. Ma oggigiorno, chi lavora a spazzar via ogni residuo di valore, in tal modo impoverendo la nostra capacità di critica, di dissenso, di opposizione, di diversità, favorisce invece l’esercizio di un potere – economico, politico, della comunicazione di massa – sempre più brutale, violento e senza regole.
Quando lavoriamo, consiglio agli studenti di non cancellare mai quello che fanno. Cancellare, dico un po’ scherzando, è immorale. È un’affermazione che li fa discutere. Perché, si domandano, quando abbiamo la possibilità di correggere, di migliorare ciò che stiamo facendo, non possiamo approfittarne? Io rispondo che vivere la nostra creatività ci permette di comprendere meglio chi siamo e come siamo fatti. In quell’abbandono a noi stessi impariamo veramente, proprio perché vediamo le nostre particolarità, riconosciamo le nostre debolezze, ma non più come errori. Nessuno – a parte Bill Murray ne “Il giorno della marmotta” – può cancellare i propri sbagli e ricominciare ogni volta da capo, o da dove gli fa più comodo.
Tuttavia, c’è un esercizio per il quale l’uso di una buona gomma è utile. Quando gli studenti mostrano i loro disegni finiti, ben fatti, in tutto e per tutto compiuti, a volte li invito a cancellare, togliendo il più possibile. È un modo per andare avanti, senza compiacersi troppo per quello che si è fatto. Qualsiasi immagine, anche la più riuscita e convincente, è solo una nuova interrogazione, un’apertura, una ipotesi da cui proseguire. In questo modo constatiamo fino a che punto possiamo fare spazio, ridurre all’osso, eliminare quello che sembrava indispensabile e invece era superfluo, era soltanto rumore, e così scoprire quanto sia vero ciò che scriveva Mies van der Rohe, il grande architetto, e cioè che “il meno è il più”.
Antonio Capaccio