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L’arte della pubblica discussione (per la democrazia)

Pubblicato il: 23/06/2011 12:08:22 -


Introdurre gli studenti alla difficile, ma necessaria, arte della pubblica discussione. Un’iniziativa del Centro in Europa di Genova in occasione della Festa dell’Europa (9 maggio) per diffondere una pratica della cui essenzialità per la democrazia e della cui universalità ha parlato l’economista indiano premio Nobel Amartya Sen.
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Se per la democrazia è indispensabile la pubblica discussione (1), allora la scuola di un Paese democratico dovrebbe porsi come obiettivo anche quello di insegnare ai giovani come si partecipa a un dibattito. Certo, l’aula di una scuola pubblica è già di per sé spazio dove si incontrano diverse opinioni; ma per gli studenti l’aula, e la scuola intera, sono il quotidiano spazio di vita, le assemblee di classe e di istituto sono ormai svuotate di senso e la comparsa in televisione, unico miraggio di questa generazione, rimane lontana. Nell’attesa, che fare?

Positivo allora il riconoscimento del logo del 150° dell’Unità all’incontro che per il 9 maggio, Festa dell’Europa, il Centro in Europa ha organizzato per 200 studenti delle medie superiori genovesi. In discussione i risultati di un questionario (2) volto a sondare il loro senso civico con domande sui pregi e difetti degli italiani, sui valori ai quali fare riferimento e sulla percezione dell’Italia e dell’UE. I partecipanti avevano compilato nei mesi precedenti il questionario, come altri 800 studenti circa; ne avevano commentato in classe i risultati facendone scaturire domande, riflessioni, scampoli di esperienze o ricordi significativi. Ciascun gruppo aveva i propri relatori, muniti di fogli dove con gli onnipresenti strumenti informatici o con le loro grafie adolescenziali in cui i puntini delle “i” si trasformano in pallini, se non in cuoricini, avevano trascritto gli interventi. Certo se li paragoniamo ai relatori professionisti, in grado di tenere lucidi ragionamenti senza preparazione, i nostri giovani fanno tenerezza, soprattutto se li si vede leggere il testo di dieci righe una cinquantina di volte per il timore di impappinarsi. Se si nota la tensione con cui affrontano l’enorme numero di sconosciuti e l’improvvisa leggerezza che subentra dopo l’intervento, si comprende quale traguardo sia parlare in pubblico, raccontando qualcosa di proprio. L’applauso che in genere scroscia generoso non è abbastanza, spesso ci vuole una risposta rassicurante: “Siamo stati bravi, prof?”.

Sì, siete stati bravi, se avete partecipato. Le opinioni espresse contano, in questo caso, meno della disponibilità ad affrontare l’esposizione. E infatti non tutti se la sentono. Domande e riflessioni sono più o meno del livello che ci si può attendere da un gruppo variegato di giovani italiani del 2011: sottolineerei questa affermazione per noi insegnanti, spesso preoccupati di far bella figura con la particolare intelligenza o preparazione culturale dei nostri studenti. In questo caso faremmo bella figura se essi prendessero la parola spontaneamente e ripetutamente durante il dibattito. È un evento che si produce di rado: il 9 maggio a Genova solo un paio di coraggiosi ha risposto alle sollecitazioni dei due relatori, peraltro anch’essi assai giovani. Il Centro in Europa ha infatti voluto impostare questa giornata come dialogo tra giovani: da una parte gli studenti delle scuole superiori, dall’altra una 23enne borsista del Centro e un 25enne professore marocchino.

Un’osservazione comunque sul contenuto vorrei farla, partendo da un trittico comparso di sfuggita in questo articolo: Italia, UE, Marocco. Che c’entrano? Essere italiani oggi significa essere europei in un mondo globalizzato. Dibattere pubblicamente significa oggi parlare tra italiani, ecuadoriani, marocchini, albanesi, i quali vivendo tra noi, ci guardano, ci giudicano e si aspettano da noi qualcosa, come è stato evidente dagli interventi del relatore Kaabour e degli studenti di origine immigrata presenti con i loro compagni a Villa Rosazza. Gli studenti di origine immigrata, è emerso dai risultati del questionario, ci vedono razzisti, mentre gli italiani esibiscono “una sorta di ‘chiusura’, in nome della quale l’Italia va protetta da influenze esterne tanto nelle sue decisioni politiche, quanto nelle sue tradizioni e nella sua cultura, quasi che la collaborazione con altri popoli e la conoscenza delle loro culture costituisca più una minaccia che un arricchimento”. Abbiamo molto bisogno di una pubblica discussione condotta nello spirito degli antichi imperatori orientali.

(1) Amartya Sen, “La democrazia degli altri”, Mondadori, Milano, 2004
(Nel libro l’economista premio Nobel indiano afferma che la pubblica discussione è indispensabile per la democrazia, questa tesi è sostenuta con un’impostazione particolarmente rilevante per la nostra società multietnica).
(2) Dal sito www.centroineuropa.it, sezione Materiali, si può scaricare gratuitamente la brochure “Chi è l’italiano di oggi?”, dove sono presentati i risultati del questionario compilati da circa 1000 studenti genovesi.

Chiara Saracco

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