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Glee, a scuola non solo cattiva TV

Pubblicato il: 10/01/2011 17:00:36 -


Dice l’elementare buon senso pedagogico: per stabilire una relazione che possa aprire i canali dell’apprendimento, è necessario trovare almeno un punto di comunicazione tra chi vuole insegnare e chi dovrebbe imparare. Persino sull’argomento “televisione”.
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Qualche mese fa, in un’assemblea politica, una – peraltro bravissima – insegnante siciliana vantava il fatto di non possedere un apparecchio televisivo e quindi di non poter interloquire con i suoi studenti, che le chiedevano pareri su “Amici” di Maria De Filippi. Questo, mi sento di affermare, è proprio l’atteggiamento più sbagliato che un educatore può assumere. Vero è che le trasmissioni della signora De Filippi, inzeppate come sono di litigi, turpiloquio e aggressività, sono fra i migliori esempi di quanto possa essere usato male il mezzo televisivo. Vero anche che alla base di “Amici” (e di altri talent show) sta una filosofia quantomeno discutibile: quella che tutti possano fare tutto, anche ballare, cantare e recitare, con un minimo sforzo e molta presunzione.

Ma, dice anche l’elementare buon senso pedagogico, per stabilire una relazione che possa aprire i canali dell’apprendimento, è necessario trovare almeno un punto di comunicazione tra chi vuole insegnare e chi dovrebbe imparare. Esistono a tal fine esempi di linguaggio e contenuto televisivo che sono mille miglia lontani dalle brutture defilippiche. (Perché poi, come diceva il mio maestro delle elementari, per aver dei risultati è meglio non sommare cipolle e patate. Prodotto televisivo va confrontato con prodotto televisivo, non con Ovidio declamato in latino o con l’arte paleocristiana, perché l’analisi e la critica risulterebbero impossibili).

Un esempio di altissimo livello, che mi sento di raccomandare sia per la visione ludica che per quella didattica, è la serie “Glee”.

In onda dal 2009 sul canale satellitare Fox, prima negli Stati Uniti e poi anche qui in Italia, “Glee” è stato ideato da Ryan Murphy, che ha scritto e diretto molti episodi, in collaborazione con Brad Falchuk e Ian Brennan.

L’idea di partenza, apparentemente, è tutt’altro che originale. Siamo a Lima, Ohio, in una scuola superiore (la William McKinley High School), nella quale, oltre alle materie curricolari, si insegnano il football americano per i maschi, le coreografie delle cheerleader per le femmine, e, su iniziativa del professore di spagnolo, si tenta di mettere in piedi un gruppo di canto corale e balli coreografati, per partecipare alle competizioni locali e nazionali di altri gruppi analoghi di altre scuole.

Nulla di nuovo, come si vede: storie di ambientazione scolastico-adolescenziale nel cinema e nella tv americana ce ne sono quante si vuole.

L’originalità, davvero notevole, sta da un’altra parte. Will Schuester (interpretato da Matthew Morrison), raccoglie nel suo gruppo una vera e propria collezione di emarginati, che sono l’esatto contrario del modello di ragazzo o ragazza di successo.

Ecco quindi che lo spettatore fa via via conoscenza con Rachel Berry (Lea Michele), ragazza ebrea con una splendida voce e un complesso di superiorità; Finn Hudson (Cory Monteith), quaterback della squadra della scuola con la passione per la musica, a causa della quale viene angariato dai virili compagni di gioco; Noah “Puck” Puckerman (Mark Salling), ebreo con i capelli alla moicano, bello e dannato; Quinn Fabray (Dianna Agron), capitana delle cheerleader con una gravidanza indesiderata; Kurt Hummel (Chris Colfer), gay dalla voce di castrato; Artie Abrams (Kevin McHale), cantante e chitarrista immobilizzato su una sedia a rotelle da un incidente d’auto; Mercedes Jones (Amber Riley), cantante di colore parecchio soprappeso; Tina Cohen-Chang (Jenna Ushkowitz), asiatica balbuziente.

A questi si aggiungono come personaggi principali della serie il preside Figgins (l’attore indiano Iqbal Theba), perennemente angustiato dalle ristrettezze del budget; la tetragona allenatrice delle cheerleader Sue Sylvester (Jane Lynch); la consulente psicopedagogica, terrorizzata dai germi, Emma Pillsbury (Jayma Mays); Terri, la moglie di Schuester che cerca a tutti i costi di avere un bambino (Jessalyn Gilsig); l’allenatore della squadra di football Ken Tanaka (Patrick Gallagher).

Come si vede, la strutturazione del gruppo di personaggi è tale da consentire i più ricchi e svariati intrecci narrativi. A ciò va aggiunto che la qualità della recitazione, del canto e del ballo sono – come sempre accade nelle produzioni statunitensi di questo genere – davvero di altissimo livello.

Mi limiterò a due soli esempi, tanto per dire quanto ogni puntata di “Glee” possa esser seguita con divertimento e interesse.

Nell’episodio (quarto della prima stagione) “La scoperta di un talento” il giovane Kurt, trascinato suo malgrado nella squadra di football, rivela finalmente al padre (vedovo; meccanico d’auto e appassionato della rude – e bellissima – musica di John Mellencamp) la sua omosessualità, ricevendo dal genitore una reazione stupefacente di grandissimo amore paterno.

Nell’episodio (nono della prima stagione) “Musica su due ruote” il professor Schuester, arrabbiato col gruppo perché la disabilità di Artie è stata trattata con indifferenza, costringe tutti i componenti a girare per una settimana intera sulla sedia a rotelle, ottenendo così non solo l’effetto di far comprendere a tutti, in pratica, quante e quali siano le barriere architettoniche e psicologiche, ma anche una entusiasmante versione per paraplegici della magnifica “Proud Mary”, scritta da John Fogerty per i Creedence Clearwater Revival, qui ripresa nella versione di Ike e Tina Turner.

Grande musica, ottimi numeri di ballo, divertimento e profondità di contenuti. C’è qualcosa di più che si dovrebbe chiedere a una serie televisiva?

Carlo Ridolfi

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